mercoledì 27 giugno 2012

Le leggi suntuarie o la regolamentazione del lusso

In piena Rivoluzione francese un decreto del l’8 brumaio anno II, ossia del 29 ottobre 1793, ruppe in modo radicale le convenzioni sul vestire che erano vigenti in Europa fin dai tempi degli antichi romani: “Nessuna persona, dell’uno o dell’altro sesso, potrà costringere alcun cittadino o cittadina a vestirsi in modo particolare, sotto pena di essere considerata o trattata come sospetta o perturbatrice della pubblica quiete; ognuno è libero di portare gli abiti o gli accessori del suo sesso che preferisce”. In altre parole si vietava qualsiasi intervento legislativo che limitasse o proibisse  l’abbigliamento a qualsivoglia classe sociale. Al giorno d’oggi facciamo fatica a capire come sia possibile irreggimentare la moda, ma per entrare nelle usanze degli antichi dobbiamo sapere che, almeno fino alla Rivoluzione, esistevano specifiche leggi che limitavano il lusso e non solo in campo vestiario, vuoi per scopi morali, vuoi per rimarcare la differenza tra classi sociali, o per contraddistinguere coloro che appartenevano a religioni odiate come gli Ebrei.
Benché fossero conosciute fino all’epoca dei greci, le leggi Suntuarie, dalla parola latina  “Sumptus”, ossia spesa, si diffusero in Europa con il diritto romano: con le loro minuziose descrizioni sono un prezioso documento sulla moda e sulla morale antica. Nel 215 a.C. fu promulgata a Roma la Lex Oppia che intendeva limitare il lusso femminile con intento di evitare spese eccessive in un momento di particolare crisi dovuta all’impegno militare durante le Guerre puniche. Fu abrogata nel 195 a.C. dopo una discussione in Senato e dopo che le donne protestarono vivacemente. Altre leggi suntuarie furono emanate da Giulio Cesare (Lex Iulia) da Tiberio, con intendeva proibire abiti di seta agli uomini, giacché si pensava che la lana fosse una fibra più virile; in seguito altri interventi furono l’editto di Diocleziano del 301 con disposizioni che riguardavano i prezzi del vestiario, e le leggi di Teodosio del 328, di Arcadio ed Onorio nel 397.
Sulla stregua di questi insegnamenti cominciarono a comparire le prime leggi suntuarie a noi note, quelle di Bologna e Perugia nel XIII secolo, per limitare il fasto eccessivo delle nozze.
Ci si mise anche Papa Gregorio X interdicendo alle donne cristiane  “smoderati ornamenti” in particolare durante la quaresima dove era proibito lo strascico. Cominciava così la guerra secolare delle code che segnò anche momenti divertenti, poiché le donne non rinunciarono facilmente e ricorsero a tutte le astuzie per salvaguardare il loro abito, compreso l’uso di spille d’oro che raccoglievano l’eccesso di tessuto in vista degli agenti di controllo.  Nel 1278 nel nord Italia, il cardinale Latino Malebranca, legato Pontificio a Bologna,  non solo vietava lo strascico ma obbligava anche l’uso del velo, pena la mancata assoluzione in confessionale, fatto gravissimo per quei tempi. Dal XIII al XIV secolo feste e matrimoni furono tenuti regolarmente sotto osservazione per moderare il lusso eccessivo. A Bologna la domenica ufficiali incaricati del controllo si appostavano fuori dalle Chiese interrogando la gente anche per indurre alla delazione. Non era sempre facile: nel 1286 una signora dotata di una coda troppo lunga, fu accanitamente difesa dagli astanti, che impedirono al notaio di misurare lo strascico. Per facilitare le spie fu così deciso di versare una parte della multa al denunciante: caddero così nella rete chiusure vietate, bottoni, ornamenti d’oro, abiti tinti con coloranti costosi.
Nel tardo Medioevo, dopo secoli di restrizioni, il vestito diventò uno strumento dell’apparire, modificando gusti e costumi. Nel XIV e XV secolo, l’arricchimento delle città, il moltiplicarsi dei commerci e in particolare la nascita delle Signorie portarono molte novità nell’abbigliamento assieme all’esigenza di indossare abiti preziosi, puntualmente stigmatizzati dalle Leggi Suntuarie che non trascuravano alcun dettaglio di moda. L’idea era di limitare il lusso delle famiglie e la fuoriuscita di denaro dalle Casse del comune, anche se alla fine i provvedimenti colpivano molto più le donne che gli uomini. Gli agenti contavano bottoni, misuravano maniche ed abiti, sequestravano o multavano fibbie d’oro, catenelle smaltate, corone, abiti in velluto o con profilature d’oro.
Più ferocemente bersagliate furono le prostitute, obbligate a portare un segno distintivo colorato o un campanello, a togliersi ogni ornamento oppure ad indossarne molti a seconda delle città; stessa sorte per i ruffiani che a Padova dovevano uscire con un cappuccio rosso pena una sonora battitura. Perseguitati in tutta Europa agli Ebrei furono prescritti abiti o segni distintivi a partire dal quarto Concilio Lateranense nel 1212, soprattutto il cappello a punta rappresentato in tante opere d’arte. Il colore maggiormente usato per distinguere gli emarginati era il giallo, ma si utilizzavano anche nastri, veli o motivi cuciti sulla veste.  Ma non bisogna pensare che le Leggi Suntuarie colpissero tutti:  spesso erano la piccola borghesia e i ceti più bassi a farne le spese, laddove i capi di governo, i magistrati, i dottori e le loro famiglie non subivano alcun controllo.
Nel Rinascimento le leggi Suntuarie si moltiplicarono, dirette non solo a fini morali, ma in particolar modo contro lo spreco economico: a fine protezionistico contro l’importazione di prodotti esteri, oppure per combattere la moda dei tagli e delle “affrappature”praticati nei tessuti, che si protrarrà anche nel ‘500 e che rovinava metri e metri di stoffa preziosa. Un’ulteriore preoccupazione era quella di far si che la gente portasse a lungo le vesti e che non le cambiasse troppo spesso: questa mentalità nasceva dal fatto che l’abito era considerato fin dal Medioevo un oggetto di pregio, spesso indicato come lascito testamentario.
Curiosa la legge bolognese del 1401 che proibiva alle donne abiti foderati in pelliccia più larghi di dieci braccia, con strascico e ricami preziosi: chi già  li possedeva doveva denunciarli e farli timbrare, dopo di che erano trascritti nel “Registro delle vesti bollate”. In talune città italiane la persecuzione contro il lusso fu caratterizzata da accenti più intransigenti e drammatici: il 7 febbraio 1497 a Firenze, dopo la cacciata dei Medici. Gerolamo Savonarola e i suoi seguaci sequestrarono e bruciarono sulla pubblica piazza oggetti d’arte, libri, articoli voluttuari come specchi, cosmetici e abiti. Ulteriore preoccupazione dei legislatori era vietare costumi troppo scollacciati o sconfinanti con l’oscenità: in particolar modo per gli uomini gli indumenti talmente corti, venuti di moda alla fine del ‘400 che mostravano le mutande o mettevano in rilievo i genitali. 
Non sempre si applicavano multe ai trasgressori, ma si poteva arrivare al sequestro dell’oggetto incriminato, alla prigione o perfino all’  esilio, come accadeva a Venezia dove si minacciavano i sarti colpevoli di produrre capi vietati allontanandoli perpetuamente dalla città: i soli esentati erano Il Doge, la moglie e ai loro familiari. In quanto all’efficacia di queste proibizioni sembra fosse assai scarsa, visto anche il fatto che le leggi erano reiterate nel tempo e che le botteghe artigiane continuavano a produrre indumenti vietati. Le proteste femminili non mancavano:  il cronista veneziano Marin Sanudo narra nei suoi diari che nel 1499 alcune nobili veronesi fecero apporre sui muri scritte ingiuriose del tipo: “bechi fotui no vedè quelo che gavè in casa”. Con la nascita dei primi stati il lusso si diffuse nelle corti dove i sovrani facevano sfoggio di ogni tipo di ricchezza, e dove i loro seguaci tentavano in ogni modo di emularli. Tuttavia se a corte il fasto era ammesso nel resto dei paesi era soggetto a limitazioni:durante il ‘500 e il ‘600 Prammatiche, Editti, Leggi e Capitoli continuarono a stabilire norme, divieti e sanzioni, diverse a seconda dei domini in cui l’Italia era divisa, ma accomunate dal medesimo tentativo di proibire gioielli, bottoni, tessuti preziosi lavorati in oro filato perfino ai bambini.
A Venezia il 29 marzo 1515 la Repubblica deliberò la proclamazione di un “Provveditore alla pompe” per emanare leggi minuziosissime che permettevano agli incaricati fin di entrare in casa e perfino nella camera delle partorienti. Si colpivano in particolar modo cerimonie come matrimoni, festività e lutto che erano occasioni per veri e propri sfoggi di ostentazione. 
Nel XVI secolo le Leggi suntuarie cominciarono ad occuparsi delle maschere: si stava infatti diffondendo l'usanza di indossare travestimenti carnevaleschi  sia all'aperto sia in casa. Ad Orvieto si proibiva agli uomini di travestirsi da donne, alle donne da uomini o - ancor peggio - da religiosi. Stigmatizzato fin dal XV secolo da San Bernardino il carnevale era considerato un divertimento sfrenato e licenzioso proprio perché dietro la maschera era possibile qualsiasi tipo di avventura.D'altro canto le prediche di San Bernardino si rifacevano ad un precedente illustre, il Deuteronomio, che al passo 22,5 ammoniva: "La donna non si vestirà da uomo, né l'uomo si vestirà da donna; poiché chiunque fa tali cose è abominio all'Eterno".
Dalla Francia stava arrivando intanto in Italia la moda delle parrucche maschili, che spopolerà per tutto il secolo successivo. Nel 1665 a Venezia il patrizio Scipione Vinciguerra di Collalto, sfoggiò durante la passeggiata sul "liston" una monumentale capigliatura posticcia, subito imitata dagli aristocratici della città. Il Magistrato delle Pompe si affrettò a proibire le zazzere alla moda che - nonostante il divieto - continuarono ad essere indossate mentre i colpevoli se la cavavano al massimo con una multa nemmeno troppo pesante.   
Dal XVII al XVIII secolo le leggi suntuarie, sempre più disattese, cominciarono a scomparire progressivamente. Mentre la cultura tradizionalista continuava a interpretare il lusso come riprovevole, il dibattito filosofico investiva l'uomo e la società e poneva l'accento sulla ricchezza di abiti e arredi come scelta politica e ideologica. 

Bibliografia:
Rosita Levi Pizetsky, Il costume e la moda nella società italiana, Einaudi, Torino, 1978
Rosita Levi Pizetsky, Storia del Costume in Italia, Istituto Editoriale italiano, Vol. I - IV
Milano, 1964 – 1967
http://www.treccani.it/enciclopedia/lusso_(Enciclopedia-delle-Scienze-Sociali)/



3 commenti:

  1. Davvero un bel post. Ho avuto modo di leggere, per via della tesi, stralci da alcune di queste leggi ed divertente pensare che, nonostante tutto, nulla hanno potuto contro chi ha comunque voluto sfoggiare un abbigliamento per esibire il proprio stato e la propria ricchezza. L'inutilità era poi evidentente per i ricchi, che bollando sui registri, di fatto continuavano a indossare gli abiti proibiti. ...vivendo a Firenze non oso immaginare il clima di terrore che il Savonarola abbia cercato di provocare, nonostante tutto era un pò estremista lui, anche se a buon ragione! Curiosamente non sapevo che anche le maschere di carnevale avessero subìto lo stesso destino.....in ogni caso, almeno queste leggi non hanno fatto discriminazioni di sesso, visto che potevano colpire sia gli uomini che le donne, ma non è che ci consoli molto. Grazie! E' un piacere leggerti! :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Cara Angela, se ti interessa approfondire l'argomento ti consiglio un testo fondamentale che puoi trovare agevolmente in biblioteca a Firenze: La storia del costume in Italia di Rosita Levi Pizetsky. Anche Maria Giuseppina Muzzarelli, che cito in bibliografia, si è occupata dell'argomento. Ciao e grazie, Bianca

      Elimina
  2. Mi è piaciuto tantissimo e l'ho fatto leggere anche ai miei ragazzi (I sec. di
    Scuola - Città Pestalozzi, Firenze) con cui sto facendo storia di Firenze e del costume. Complimenti!

    RispondiElimina