sabato 11 febbraio 2012

Paco Rabanne

Verso la metà degli anni Sessanta si sviluppò il Movimento di protesta giovanile che raggiunse la sua apoteosi nel 1968.  Studenti e operai europei e statunitensi presero posizione contro l’ideologia del capitalismo che proponeva il denaro e il mercato come centro focale della vita. La guerra del Vietnam non fu certo estranea alla rivolta generale e si legò alla battaglia per i diritti civili e all’ostilità verso il Capitale. Anche la famiglia tradizionale fu scossa dal rifiuto dell'autorità dei genitori e del conformismo dei ruoli. Furono messi in discussione anche le discriminazioni in base al sesso e alla razza.
Con la contestazione cominciò a diffondersi l’idea di un vestire più comodo, informale e meno elitario. Relativamente alla moda aumentò la richiesta di massa: essa era ormai un fenomeno che interessava i mercati internazionali e solo in piccola parte era riservata ad una elite ricca ed esclusiva. Solo le industrie poterono competere dal momento che  sfornavano capi di linea e taglio semplici, meno costruiti di quelli di sartoria; la lavorazione a catena e i tessuti sintetici e misti permettevano di tenere i prezzi bassi. In tal modo cominciarono a sgretolarsi il primato della haute couture e il mito di Parigi.

Gli anni Sessanta registrarono anche un mutamento dell’ideale estetico femminile e maschile. Non più le donne formose e sofisticate degli anni Cinquanta ma ragazze giovanissime, pallide e molto magre. Su questo nuovo modello si sviluppò lo stile sartoriale ormai dedicato ai giovani che case di moda e industrie avevano intuito come una nuova e promettente classe di consumatori. 
In questa nuova atmosfera si inserì lo stile di Paco Rabanne, al secolo Francisco y Cuervo, che come altri creatori di moda anticonformisti come Courrèges, Saint Laurent, Cardin, Ungaro cominciarono a eclissare la figura dei classici couturier. Tutto il percorso stilistico di Rabanne si era allontanato dalla tradizione: iscrittosi alla Scuola di Belle arti di Barcellona per diventare architetto e affascinato dalla Pop Art, dal Dadaismo e dalle sculture in materiali innovativi come il neon, la plastica, il ferro, si inserì in seguito nel mondo della moda creando accessori per il pellettiere Roger Model, poi il calzaturiere Charles Jourdan giungendo infine a Balenciaga. Convinto che la creatività non è seduzione ma choc, nel 1964 aprì la sua casa di moda inaugurando la sua prima collezione con abiti fatti soprattutto in rhodoïd, un materiale plastico rigido e a basso costo, colorabile e facilmente tagliabile. I pezzetti erano tenuti assieme da anelli metallici: non più ago e filo dunque, ma strumenti sartoriali quali pinze e ganci. Altro elemento scioccante: le modelle erano di colore,  mai viste prima nell’alta moda. La sfilata fece scandalo ed ebbe riflessi su tutta la stampa internazionale, mentre Cocò Chanel gridava: “Questo non è un sarto, ma un metallurgico!”. Ma il successo arrivò e Rabanne divenne un fenomeno alla moda: nel 1966 presentò all’Hotel Georges V dodici “vestiti importabili in materiali contemporanei” indossati da modelle scalze. In seguito, anche grazie ai progressi tecnologici, il sarto sbrigliò ancor di più la sua scatenata fantasia: nel 1967 lanciò una serie di vestiti pieni di accostamenti irriverenti: in carta, tessuti assieme a una trama di nylon e legati con bande adesive, in jersey di alluminio che imitavano i merletti, oppure in piume incollate a nastri, o in strisce di pelliccia lavorata a maglia  con elementi metallici. Per gli abiti da sera scelse sottilissimi tubi di plastica, mentre immaginò le sue spose vestite in rettangoli di rhodoïd opalescente.  
L’idea alla base della creazioni di Rabanne stava in una precisa volontà di democratizzazione della moda, unita certamente a un forte gusto per la provocazione. I suoi abiti erano adatti a silhouette sottili, a donne coraggiose che non temevano né il caldo, né il freddo, né la scomodità: “i miei modelli sono come delle armi” dichiarò a Marie Claire “Quando sono chiusi si ha come l’impressione di udire il grilletto di un revolver”. Sempre con tecniche artigianali realizzò tra il 1970 e il 1976 abiti in bottoni, vestiti in fazzoletti, maniche costruite con calzini, modelli in fasce di caucciù, ecc. In quanto agli accessori non erano meno stravaganti dei vestiti: caschetti in metallo, turbanti iridati, antenne e zampilli in plexiglass e alluminio.
Dopo lo sbarco sulla luna si era in pieno boom spaziale e molti couturier si ispirarono, come Rabanne, ad abiti siderali che mandavano bagliori luminescenti. Anche il mondo dello spettacolo richiese i suoi modelli: una delle prime attrici che lo seguì fu Audrey Hepburn nel film “Due per la strada”, nel 1966 vestì le ballerine del Crazy Horse, nel 1968 fece indossare alla cantante Françoise Hardy un abito in lamine d’oro con incrostazioni di diamanti e infine mise addosso a Jane Fonda, nel film Barbarella, un cortissimo e sensuale abitino in stile medievale fatto in maglia di metallo. La parabola di Rabanne terminò con l’ipotesi di abiti biodegradabili, in accordo con le nuove idee che predicavano il salvataggio della natura. Chiusa definitivamente la sua maison si ritirò dalla moda nel 1999.

Bibliografia: Lydia Kamitsis, Paco Rabanne, ed. Franco Cantini, Firenze, 1998; Guido Vergani, Dizionariodella moda, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010; Gabriella D’Amato, Moda e design, ed. Bruno Mondadori, Milano, 2007.

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