venerdì 17 febbraio 2012

Tre artisti della calzatura moderna: Perugia, Ferragamo, Vivier

Le calzature sono antiche come la storia dell’uomo, tuttavia la loro forma e il loro uso sono stati condizionati per millenni, almeno per quanto riguarda le donne, dal fatto di scomparire sotto la lunghezza delle sottane. Solo a partire dal Ventesimo secolo, in parte grazie alle innovazioni tecniche e alla meccanizzazione, ma soprattutto a seguito del progressivo accorciamento delle gonne, le scarpe femminili conobbero un’importanza sconosciuta nei secoli precedenti, diventando un vero e proprio oggetto di desiderio e di culto. Dopo il che dal 1910 Paul Poiret lanciò la sua famosa “linea impero” che liberava la donna dal busto ed evidenziava la punta delle scarpe, gli abiti femminili cominciarono  lentamente a mostrare le gambe fino alla schioccante moda dell’orlo al ginocchio negli anni Venti. E’ appunto a partire da questo periodo che  gli stilisti della scarpa sostituirono gli anonimi piccoli calzolai.
Tra i primi di loro ci fu André Perugia  (1893 – 1977) nato a Nizza da padre italiano e che giovanissimo seguì con particolare abilità la professione paterna di calzolaio. La moglie del proprietario del Negresco, uno degli alberghi di lusso della cittadina, gli propose di aprire una piccola vetrina dove lui iniziò a mostrare le sue creazioni con prezzi che già da allora erano fuori mercato. La sua filosofia era che le donne che frequentavano simili hotel potevano permettersi di spendere centinaia di franchi per un paio di scarpe. Si dimostrò un vero e proprio pioniere della scarpa: era convinto che per svelare la personalità di una donna fosse necessario studiare a fondo i suoi piedi. Notato da Poiret, fu introdotto dal famoso couturier presso la società parigina e nel 1921 aprì la sua prima boutique in Faubourg St. Honoré, la strada  più elegante della capitale.
Durante la prima guerra mondiale aveva dovuto lavorare presso una fabbrica di aerei, ed aveva studiato soluzioni ingegneristiche che gli permisero in seguito di realizzare scarpe dalla linea curiosa e aerodinamica: non a caso dichiarò in seguito che “un paio di scarpe devono essere perfette come un’equazione e adeguate al millimetro come un pezzo di motore” e cercò sempre di trovare una connessione ideale tra scarpe, tacco e peso del corpo. Con queste idee, supportate da estro e fantasia, Perugia diventò ben presto il calzolaio di dive famose, come Josephine Baker, Mistinguette, regina del vaudeville francese famosa per le sue splendide gambe, o l’attrice cinematografica Pola Negri; in seguito lavorò anche per Hollywood. Collezionista di opere d’arte moderna, non di rado si ispirò  alle nuove avanguardie: famose le sue calzature “a pesce” omaggio al George Braque, pittore cubista francese, o quelle che ricordavano la colomba della pace di Picasso e che sembravano librarsi in aria. Né trascurò creazioni originalissime con tacchi sferici o a spirale in metallo.
Salvatore Ferragamo (1898 – 1960) era nato a Bonito, in provincia di Avellino ed aveva cominciato giovanissimo facendo scarpe per le sorelle. Dopo aver fatto pratica a Napoli tornò al paese di origine per aprirvi un piccolo negozio, ma già nel 1914 partì per l’America dove terminò la sua formazione lavorando per un calzaturificio e studiando anatomia presso l’Università della California. Spostatosi nel 1923 ad Hollywood riuscì a guadagnarsi il nome di “calzolaio delle stelle” creando scarpe per colossal biblici come “I dieci comandamenti” di Cecil de Mille e servendo in seguito le grandi case di produzione; attori famosi come John Barrymore, Rodolfo Valentino, Lillian Gish o Mary Pickford indossarono scarpe Ferragamo.
Molto apprezzato anche fuori dai circuiti cinematografici ma insoddisfatto della manodopera americana, Ferragamo fece ritorno in Italia e precisamente a Firenze, dove esisteva da secoli un’importante tradizione manifatturiera del pellame. Nel suo nuovo laboratorio applicò sistemi di catena di montaggio pur rigorosamente manuale. Dopo un periodo di grosse difficoltà materiali, si risollevò durante gli anni Trenta.  La crisi della seconda Guerra mondiale lungi dal farlo fallire lo spinse di nuovo alla ribalta: il divieto dell’uso di cuoio e di pellami, destinati all’industria bellica, lo spinsero a ricorrere a materiali innovativi come la rafia, il cellophane, la tela, il fili metallici, il legno e le resine sintetiche. Convinto che le scarpe oltre che essere belle dovessero anche essere comode, inserì nella soletta un supporto in acciaio; tuttavia la guerra di Abissinia ne bloccò la disponibilità: fu allora che Ferragamo inventò la famosa zeppa in sughero, che finirà per caratterizzare la maggior parte delle scarpe degli anni Quaranta. La zeppa poteva avere anche tacco rientrante, ribattezzato ad “Effe” che fu brevettato.  
Fantasioso, a volte visionario, Ferragamo  conobbe il successo mondiale solo nel dopoguerra in cui creò pezzi indimenticabili che si inserivano perfettamente nella voglia di vivere del boom economico: scarpe per celebrità come Greta Garbo, Sophia Loren, Anna Magnani, i duchi di Windsor, tacchi a spillo rinforzati in metallo per Marylin Monroe, sandali in oro, scarpe per turisti facoltosi. I sandali invisibili con tomaia in filo di nylon che nel 1947 gli varranno  l’Oscar della Moda. Altra sua famosa invenzione furono nel 1957 le “Ballerine” senza tacco e dalla punta arrotondata, ispirate alle danzatrici classiche e portate da attrici come Audrey Hepburn e Brigitte Bardot.
Dopo la sua morte l’azienda, portata avanti da figli e nipoti, si trova tuttora a Firenze nel palazzo Spini e Feroni a cui  è annesso il Museo Ferragamo.
Roger Vivier  (1907 – 1998) aveva studiato presso l’Ecole des beaux arts di Parigi diventando poi apprendista in una fabbrica di calzature. In seguito la sua formazione artistica fu alla base della sua carriera di stilista. Già disegnatore di scarpe riconosciuto,  negli anni Trenta collaborò con Elsa Schiaparelli inventando un modello ortopedico con la suola di sughero. Dopo la guerra, periodo in cui la sua attività si indirizzò verso la modisteria, collaborò dal 1953 al 1963 con Christian Dior. Il lusso che il couturier profondeva nei suoi abiti era in sintonia con la fantasia di Viver. Anche se non è certo che sia stato lui ad inventare il tacco a spillo, certamente lo applicò alle ultrafemminili  collezioni presentate con Dior, inserendovi all’interno una punta di metallo; ancora per la Maison disegnò un originale tacco a virgola. Guardando alla storia della moda ma senza dimenticare le innovazioni della tecnica creò prototipi stravaganti e barocchi, tanto da procurargli il soprannome di “Fragonard della scarpa”: si immaginava le calzature come sculture su cui poi applicava seta, perle, pizzi o addirittura gioielli. Vivier incontrò il top della notorietà quando Elisabetta II d’Inghilterra gli fece fare nel 1953 per il giorno della sua incoronazione,  scarpe in capretto d’oro cosparso di granati. A lui si rivolsero attrici famose come Marlene Dietrich ed Elizabeth Taylor, ma anche Regine e donne importanti come Farah Diba, la Duchessa di Windsor, Jackie Kennedy,  Imelda Marcos. Né rifiutò di creare scarpe da uomo come quelle che più tardi inventò per i Beatles come le stravaganti scarpe di John Lennon, col tacco decorato in diamanti o gli stivali rossi per Rudolph Nureyev. Tuttavia Vivier rimase fondamentalmente un  stilista per donna.  
La sua attività proseguì negli anni Sessanta con le famose e copiatissime scarpe dotate di ampia fibbia quadrata, ispirate a quelle dei pellegrini puritani e indossate da Catherine Deneuve nel film “Bella di giorno”. Con la moda degli stivali scoppiata con la minigonna, riuscì ad applicare paillette e perline anche a questo tipo di calzature. Nello stesso periodo aveva iniziato a collaborare con Yves Saint Laurent con cui lavorò fino al 1970. Nel 1972 si ritirò dal mondo della moda. Il suo marchio però continuò a vivere sotto la direzione creativa di Bruno Frisoni. Per Frisoni le scarpe sono “come gioielli per i piedi. Si tratta di un lusso sottile e potente. Sexy ma mai appariscenti. La scarpa è un accessorio di seduzione. La seduzione è la parola d’ordine dei miei disegni per Roger Vivier”.

ll busto

L’uso di stringersi il busto per reggere  i seni e avere vita sottile risale, per quanto ne sappiamo, al periodo cretese, come dimostrano statuine di dee conservate al museo di Hiraklion. Nella Grecia antica, si usava invece una fascia riccamente colorata detta Tainìa, Stethòdesmos, Stròphion, che serviva a reggere, accentuare o comprimere il seno. Nemmeno le romane sfuggirono a questa intrigante moda che nella lingua latina era detta Strophium.  Marziale lo definiva:”Trappola a cui nessun uomo può sfuggire, esca che riaccende di continuo l’amorosa fiamma”.  
I primi busti fecero capolino nel ’500, probabilmente influenzati dai rigidi costumi spagnoli che si estesero in Italia ed in Inghilterra, anche se  alcune fonti ne  attribuiscono l'introduzione  a Caterina de Medici, moglie di Enrico II di Francia. Erano gabbie di ferro sagomate e a volte finemente lavorate che terminavano con una lunga punta sul davanti che rendeva anche il semplice sedersi su una sedia un supplizio. Per fortuna la lunga stecca interna non era fissa e poteva essere estratta. Un tipico esempio è in mostra al museo di Cluny, a Parigi. Pesanti e scomodi, questi corsetti furono rivestiti di tessuti preziosi per non causare piaghe.
Una volta inaugurato, il busto rimase un indumento fondamentale per le signore che desideravano la vita sottile, pur perfezionandosi nella linea e diventando più leggero di quello cinquecentesco. Accanto alle “ossa” in ferro (così venivano chiamate le strutture nascoste nel tessuto) si usavano stecche di balena più flessibili. Durante il XVIII secolo, in cui vennero di moda scollature abissali, questo indumento poteva essere messo in vista sul davanti, a volte allacciato con stringhe. Un altro modo di portarlo era nasconderlo sotto l’abito. In entrambi i casi era una vera e propria tortura perché la donna non poteva piegarsi. A partire dal 1770 a dettare moda fu l’Inghilterra, attraversata dal fermento della rivoluzione industriale, che impose abiti femminili più pratici e con  minime costrizioni. La prima a indossare bustini più leggeri fu la stessa regina di Francia Maria Antonietta, il cui gusto dettava lo stile dell’abbigliamento a tutta Europa. Al culmine della rivoluzione francese, poi, i primi decreti del nuovo direttorio annullarono ogni legge circa  l’abbigliamento: da allora in avanti ognuno poteva vestirsi come voleva e alle donne era consentito liberarsi dell’impaccio del corsetto.
L’improvvisa libertà durò circa un trentennio. La reintroduzione del busto,vero e proprio tiranno della moda femminile ottocentesca, avvenne in modo strisciante, alimentata dai giornali di moda che ne esaltavano l’eleganza, la flessibilità, la leggerezza; un figurino del “Corriere delle dame” ne mostra un esempio: stringhe sulla parte posteriore e fibbia per chiudere la vita. Nel 1835 il ritorno del corsetto era ormai un fatto compiuto: si era affascinati dal corpo a clessidra, della vita minuscola, della gonna enorme e ovoidale sostenuta dalla “Crinolina”. Il busto si armonizzava col candore e la forma della biancheria femminile che mai come nell’Ottocento fu ricca  e variata.  Uno dei problemi del corsetto era che necessitava di una seconda persona per allacciarlo o slacciarlo: nel 1840 fu  messo a punto il busto “à la parseuse”, ossia “alla pigra” che permetteva, con un sistema di lacci elastici, di indossarlo da sole.
La contraddizione stava nel fatto che, mentre l’ideale estetico era quello della donna in carne,  la vita si assottigliò a metà del secolo a una circonferenza ideale di 40 centimetri, ossia quella  che poteva possedere solo una creatura anoressica. Nel 1859 un giornale parigino riportò la tragedia di una giovane donna, ammirata per la vita sottile, che morì due giorni dopo un ballo perché il busto le aveva stretto le costole al punto che le avevano perforato il fegato.  E i medici? Si dividevano tra due fazioni, influenzate anche da pregiudizi correnti: c’era chi riteneva il busto indispensabile per reggere la figura femminile”naturalmente fragile”, pensando che la colona vertebrale andasse opportunamente sostenuta, e chi lo criticava aspramente perché comprimeva tutti gli organi interni e provocava svenimenti ed evidenti malformazioni fisiche. “Nel 1887 il dottor Robert L. Dickinson pubblicò un articolo sul New York medical journal che denunciava le sofferenze e le malformazione che i corsetti infliggevano alle donne, dalla pressione causata dai corsetti risultano profonde escoriazioni, e a volte sopraggiunge la morte.
Alla voce dei medici si univa anche quella delle prime femministe. L’attivista americana Elizabeth Stuart Phelps, nel 1874 (un secolo prima dei reggiseno bruciati sulla pubblica piazza negli Anni ’70), esortava le donne a dare fuoco ai loro corsetti: "Fate un falò delle crudeli stecche d’acciaio che per così tanti anni hanno tiranneggiato sul vostro torace e addome. E tirate un sospiro di sollievo per la vostra emancipazione che, ve lo posso assicurare, inizia da questo momento" (da Focus storia, giugno 2010).
Tuttavia la condizione menomante del busto fu ignorata fino alla fine del secolo: ad esempio nel 1880 un certo dott. Scott ne lanciò uno elettrico, assicurando che avrebbe curato  “paralisi, reumatismi, disturbi della colonna vertebrale, dispepsia, stitichezza, guai della circolazione, debolezza nervosa, torpore e così via” (Bernard Rudofsky, Il corpo incompiuto).
La tortura cominciava fin da bambine e continuava stringendo gradatamente la fragile gabbia toracica. Alla fine del secolo nel periodo Liberty, venne introdotto un nuovo tipo di corsetto che partiva da sotto i fianchi, li inarcava indietro e spingeva il seno molto in alto, stretto in una forma che sembrava ignorare che la donna possiede due mammelle e che Rudofsky definisce “monopetto sbalzato”. Per le donne magre il soccorso poteva arrivare da seni finti e natiche posticce. Era la linea ad Esse, detta anche “schiaccia ventre”che fu di moda fino al 1910 circa. Non solo, così come l’Ottocento  aveva inventato un abito per ogni occasione (il viaggio, il ballo, lo sport, il giardinaggio, la visita, la gita in carrozza ecc.) anche il busto si differenziò nei tessuti e nei modelli a seconda delle circostanze della giornata e delle stagioni. Perfino lo sport, che stava diventando di moda, pretendeva l’uso del corsetto sia per le bagnanti (la ditta Weber ne aveva inventato uno antiruggine) sia per tutte quelle che cominciavano a praticare attività all’aperto come le tenniste, le alpiniste, le cicliste,allora dette “velocipediste”.
Il corsetto, giunto ormai all’apice ma sempre più considerato un doloroso impaccio,  tramontò nel 1910 quanto il sarto parigino Paul Poiret cambiò radicalmente la silhouette delle donne rilanciando il cosiddetto "stile impero" che comportava vita alta e corpo libero. D’altro canto la vita moderna e soprattutto l’immissione delle donne nel mondo del lavoro durante le due guerre, rendeva il busto del tutto anacronistico. Solo nel 1946 lo stilista Christian Dior lanciando il suo celebre  "new look" cercò di reintrodurre la  "vita da vespa" detta guêpière.

Bibliografia:

Rosita Levi Pisetzhy, La storia del costume in Italia, Ed. Istituto editoriale Italiano, Milano 1969 Bernard Rudofsky, Il corpo incompiuto. Ed. Arnoldo Mondadori, Milano, 1971
Béatrice Fontanel, Busti e reggiseni, Ed. Idea Libri, Rimini, 1997
Anita Rubini, Bianca Maria Rizzoli, “Vite da vespa” Focus storia, Ed. Gruner+Jahr/Mondadori, giugno 2010.

mercoledì 15 febbraio 2012

Storia della borsa

La storia della borsa è molto antica, anche se non ben documentata. Probabilmente nacque assieme al denaro  e si presume fosse un sacchetto comodo e portatile di uso prettamente maschile. Le prime monete metalliche in bronzo furono forse inventate in Cina circa 2700 anni fa, ma a Creso, re di Lidia, fu attribuita l’introduzione della moneta in oro od argento. Nella civiltà greca antica la moneta era diffusa, e forse non è un caso che la radice della parola borsa derivi proprio dal termine greco “Byrsa” che vuol dire cuoio. Aumentando la circolazione monetaria si diffusero maggiormente anche le borse, di cui conosciamo alcuni nomi latini: la “zona” da portare in cintura, la “crumena” da mettere a tracolla,   la “manticula” che si teneva in mano. Il poeta Marziale ne cita una a cui fa dire: “Quando sarò passata di moda non buttarmi via, te ne prego, che non mi prenda qualche barbone per metterci gli avanzi e magari non mi faccia dormire col suo cagnaccio”. Durante il Medioevo la borsa o per meglio dire la bisaccia, fu un accessorio indispensabile di cui si dotavano i pellegrini  che si recavano in adorazione dei luoghi santi della cristianità: Santiago, Roma, Gerusalemme. Il “Liber Sancti Jacobi” del XIII secolo descrive la vestizione del pellegrino come una cerimonia liturgica in cui si indossava tra l’altro il capace accessorio  che doveva contenere il minimo indispensabile per il viaggio: lasciapassare, denaro, ciotole per mangiare e persino guide o carte che indicavano la strada.
Nel Medioevo la borsa diventò tuttavia anche un importante elemento del vestiario cittadino: ne fanno fede le Arti o corporazioni del XIII secolo. A Firenze i Calzolai, i Cuoiai i Caligai, che si occupavano della lavorazione del cuoio avevano le loro botteghe vicino all’Arno dove venivano conciate anche le pelli. Le borse si trasformarono da rozzi sacchetti di cuoio a preziose scarselle decorate, dette anche marsupi, che si appendevano alla cintura con corregge in cuoio. Anche i materiali cominciarono a diversificarsi: le più eleganti erano in seta di diversi colori, le più costose con ricami in oro, perle e gemme. L’invenzione del lavoro a maglia introdusse le borse “laborate ad acum”, mentre per indicare il casato a cui si apparteneva vi si applicava lo stemma, usanza ricordata anche Dante nell’Inferno, quando descrive gli usurai che camminano sotto una pioggia di fuoco con le borse attaccate al collo.
Con le borse nacquero anche i borsaioli, detti anche tagliaborse, perché con un rapido colpo di coltello recidevano le cinghie della borsa per rubarla. Una borsa particolare diffusasi dopo le crociate fu l’elemosiniera, detta anche alla francese “aumonière sarrazinoise”, ossia alla saracena, che ne ricordava l’origine orientale. Era un sacchetto quadrato o trapezoidale, a volte increspato sulla parte superiore e legato alla cintura, dove si riponevano gli spiccioli per le elemosine. Col tempo l’elemosiniera si arricchì di chiusure metalliche , di cerniere e piccoli scomparti. Oltre che simbolo di ricchezza la borsa maschile tardo medievale era per l’uomo un’esibizione di virilità. Dalla seconda metà del Trecento infatti, i vestiti maschili si accorciarono fino alle natiche e la cintura scese quasi all’altezza dei glutei: la borsa era posta nel mezzo, come ironicamente racconta il Villani nella sua “Nuova Cronica” alludendo all’organo su cui era appoggiata.
Anche il Rinascimento praticò la moda della borsa, che nel frattempo si era moltiplicata nei modelli “alla francese” , “alla ferrarese”, “alla veneziana”, “alla castigliana” per lo storico di difficile individuazione. Forse era del tipo francese quella menzionata da Leonardo da Vinci, “con lunghe e acute punte” che ricordavano la moda d’oltralpe del gotico fiammeggiante. Come per altri accessori le borse potevano essere un pregiato dono di matrimonio che recava  i ritratti dei futuri sposi. Un ulteriore e curioso modo di portare lettere ci è testimoniato da un dipinto del Carpaccio, che rappresenta un guerriero in armatura con calzebraghe chiuse sui genitali da uno sportello in tessuto in cui è inserito un documento. Durante il secoli del Barocco la borsa subì un’eclisse: a causa dell’eccessivo allargamento delle gonne, gli oggetti e il denaro vennero infilati in capaci tasche nascoste sotto le pieghe della sottana. Un taglio praticato nel tessuto permetteva di allungare una mano e prendere l’oggetto desiderato. Sì, perché il diffondersi di preziosi accessori di bellezza come i ventagli, i sali profumati, le tabacchiere, i portanei, i necessaire da cucito, crearono l’esigenza  di contenitori capaci, nascosti appunto nelle tasche femminili e maschili. Nel Settecento era compito del cicisbeo di porgere alla dama da lui servita ciò di cui aveva bisogno. Oltre a ciò la diffusione del manicotto, che assunse dimensioni enormi alla fine del Settecento, permetteva l’inserimento di ulteriori piccole tasche.  Molto diffusa in questo secolo fu anche la borsa da lavoro, ossia da cucito.
Con l’avvento della Rivoluzione francese gli abiti femminili si semplificarono al punto da sembrare candide camicie. Non potendo più usare le tasche le signore ritornarono alla borsetta, questa volta appesa al braccio, ma talmente minuscola da essere chiamata “ridicule”. Durante l’Ottocento il nostro accessorio conobbe alterne fortune, ma in generale rimase l’uso delle tasche nascoste, perché la gonna fu per tutto il periodo talmente larga da rendere la borsa troppo impegnativa. A volte piccoli modelli da sera, in rete metallica o in tessuto, contenevano il carnet di ballo o altri minuscoli oggetti. Solo verso le fine del secolo, col diffondersi dei viaggi, della villeggiatura e delle passeggiate all’aperto, fu necessario riscoprire la comodità della borsa dove si potevano infilare il portamonete, i sali, lo specchietto, il taccuino. Solitamente in tessuto di seta, raso o velluto, poteva anche essere fatta in casa dalla proprietaria che vi ricamava sopra motti o le proprie iniziali.
L’uso di massa della borsetta esplose molto più tardi, quando la donna, dopo la prima guerra mondiale, iniziò ad uscire dall’ambito chiuso delle case, cominciò a lavorare  ed ebbe la necessità di portarsi dietro un comodo contenitore per le proprie necessità personali. Le dimensioni delle borse aumentarono e numerosi modelli furono pubblicati sulle riviste specializzate. Costumisti, artisti, stilisti iniziarono ad interessarsene: da Erté a Paul Iribe, da Sonia Delaunay, a Futuristi come Giacomo Balla. Convivevano varie tendenze: la “trousse”, piccolo contenitore-gioiello in materiale rigido come la giada o la tartaruga, e per le più audaci in oro, come quella creata da Salvador Dalì a forma di colomba con le ali piegate; la “pochette”, con o senza manico, la borsa in cuoio o coccodrillo a due manici, la borsina di perline ornata di frange col manico a catenella. Negli anni Venti Coco Chanel inventò la sua borsa inconfondibile, trapuntata e col manico a catenella, subito adottata da dive come Marlene Dietrich e Gloria Swanson.
A Parigi nel 1935 i fratelli Hermès inventarono la Kelly bag, in origine una borsa da sella, poi ridotta di dimensioni e resa famosa nel 1956 da Grace Kelly ormai principessa di Monaco; nel 1937 Elsa Schiaparelli lanciò la borsa a secchiello, copiata dalla pubblicità di una compagnia aerea. In Italia già da tempo erano nati Gucci e Gherardini, destinati a notevoli fortune. Ormai la borsa era entrata di prepotenza nella moda e nessuna signora se ne sarebbe privata, abbinandola con le scarpe appropriate. Negli anni Sessanta, con la contestazione giovanile e il rifiuto della moda imposta dall’alto, la borsa elegante cominciò ad essere sostituita da modelli in cuoio fatti a mano o ispirati a prototipi etnici, tascapane. Nello stesso periodo fece la sua fugace comparsa il “borsello da uomo”, disapprovato dagli arbitri dell’eleganza. Ma intanto stavano arrivando sul mercato il tessuto plastificato o i materiali sintetici. Le nuove borse “casual” non erano affatto economiche, soprattutto se firmate da importanti stilisti. Il marchio era diventato più costoso del materiale.

Bibliografia: R. Levi Pizetsky, Storia del costume in Italia, Istituto editoriale italiano, Milano, 1967; M. Schiaffino, O la borsa o la borsetta, Idea libri, Milano, 1986; L. Bordignon Elestici, Borse e valigie, ed. BE-MA, Milano 1989

domenica 12 febbraio 2012

Cristobal Balenciaga

Nato nel 1895 a Getaria  in Spagna, quello che verrà chiamato da Cecil Beaton, “Il Titano della moda”, proveniva da una famiglia povera ma era nato col dono di una grande  creatività. Dalla madre, che faceva la cucitrice, apprese i primi rudimenti di taglio e cucito. Questo ragazzo così dotato per la sartoria, fu notato dalla Marchesa de Torres che gli commissionò il primo lavoro importante: copiarle un abito di Paul Poiret. Soddisfattissima del risultato la nobildonna lo spedì a Madrid perché studiasse il mestiere. Nel giro di pochi anni avrebbe aperto tre maison in Spagna, recandosi spesso  a Parigi per aggiornarsi sugli ultimi modelli. Diventò ben presto il couturier dell’aristocrazia e perfino della famiglia reale. Nel 1937 fu costretto stabilirsi definitivamente a Parigi a causa della Guerra civile spagnola ed aprì una propria casa di moda in avenue George V, anche qui aiutato da un altro esule. Nonostante la concorrenza della grande sartoria francese, la sua prima collezione fu un successo. Fin dai primi anni di lavoro Balenciaga mostrò lo spirito introverso che lo avrebbe caratterizzato per tutta la vita: fu uno dei pochi stilisti a disegnare, tagliare e cucire da solo le proprie creazioni, studiando con pignolissima cura le proporzioni dei suoi modelli. Preferiva la sobrietà e la geometria dei tagli impeccabili; prediligeva  stoffe rigide e preziose, adatte ad assecondare i suoi progetti, dichiarando che: “un bel vestito segue il corpo, e solo il corpo”.  Per lui un vero stilista doveva essere architetto, scultore, pittore  e perfino musicista nell’armonia e filosofo nella moderazione.
Nei colori era evidentemente influenzato dalla grande pittura spagnola, quella di Velázquez e Goja,  con sfumature di marrone o “blocchi” di bianco e nero, e solo verso gli anni ’50 presentò capi in giallo e rosso brillante, verde bottiglia, viola, rosa confetto. Amava i contrasti anche  nell’utilizzo dei tessuti, abbinando preziose stoffe tradizionali, come la seta, il taffettà, il tweed e il cotone canvas a tessuti nuovi, sperimentali e sintetici.
Era un lavoratore infaticabile e un anticipatore: nel 1939 presentò abiti dalle spalle arrotondate, la vita stretta e i fianchi arrotondati che in qualche modo precorrevano il New Look di Christian Dior. Contrariamente a tutti gli altri sarti, che cambiavano linea ogni sei mesi, Balenciaga ammetteva solo impercettibili ed essenziali variazioni.
Il pieno successo però arriverà solo dopo la Seconda guerra mondiale e durerà fino ai primi anni Sessanta, consolidando il nome della sua casa nel mondo dell’alta moda. Negli anni ’50 inventò una linea memorabile in cui le gonne erano rialzate bruscamente sul davanti e cadevano a coda sul retro con evidente riferimento alle vesti delle ballerine di flamenco.  Infatti non dimenticò mai le sue origini spagnole e riuscì a far apprezzare alla Parigi bene elementi caratteristici del suo paese come il pizzo, il bolero e il contrasto tra rosso e nero. Nel 1956 lanciò una linea che - dopo un decennio di vite strozzate - fece scandalo: il sacco nero, uno chemisier che fu oggetto anche di caricature.  Ma il pubblico, nonostante tutto, lo apprezzò e tutt’ora può considerarsi un classico della moda. Creò molti tailleur, tra cui il più celebre era in tweed col collo scostato. Questo tipo di colletto fu una sua caratteristica e una sua ossessione; dichiarava che : “Lo stelo deve avere aria intorno per reggere la testa “fiore”. Fu anche l'inventore dell'abito a uovo e della linea a palloncino. Negli anni Sessanta aveva una clientela invidiabile nel bel mondo europeo: sarto ufficiale della Casa Reale spagnola, prediligeva le donne decise e naturalmente eleganti, perché riteneva che l’eleganza naturale fosse il primo presupposto per indossare bene un bell’abito.
Nel 1968ì, con l'avvento del Pret-a-porter, decise di ritirarsi: non era interessato al denaro e rifiutò sempre gli allettanti inviti degli americani, pur rimanendo di grande ispirazione per successivi e importanti stilisti. 
Come già detto aveva un carattere schivo e taciturno. Guido Vergani, nel suo “Dizionario della moda”, lo racconta così: “Ho visto sette collezioni di Balenciaga  ma non ho mai visto neppure il naso del grande Cristobal affacciarsi da una porta o da una tenda del suo atelier. Mi è capitato di vederlo per caso una  volta alle tre del pomeriggio, in un piccolo bistrot, solo, triste, elegante, consumare una colazione con omelette e olive nere e scambiare qualche tenero sguardo con il suo cane”. E altrove: “Nell’atelier di Balenciaga, durante le sfilate, c’era l’atmosfera di un convento con severissima badessa o quello di un collegio con quelle scellerate direttrici di certi film tedeschi. Mademoiselle Renée, la direttrice implacabile dell’atelier, aveva coi giornalisti dei rapporti quasi sadici: non solo non si poteva parlare, ma neppure tossire e per nessuna ragione al mondo, fosse pure scoppiata la seconda guerra mondiale, si poteva lasciare la sala prima della fine della collezione. Leggi che valevano anche per le mannequin che non potevano parlare a voce alta nei camerini e non dovevano avere la benché minima espressione durante le sfilate”. Balenciaga morì a Valencia nel 1972.
Attualmente il marchio è in mano Nicolas Ghesquière e fa parte del gruppo Gucci.
Nel 2011 una selezionatissima giuria spagnola capeggiata dalla Regina Sofia, ha assistito all’inaugurazione del Museo Balenciaga, a Getaria.

Bibliografia: Guido Vergani, “Dizionario della Moda”, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010.
Georgina O’ Hara, “Il dizionario della moda", ed. Zanichelli, Bologna, 1994


sabato 11 febbraio 2012

Paco Rabanne

Verso la metà degli anni Sessanta si sviluppò il Movimento di protesta giovanile che raggiunse la sua apoteosi nel 1968.  Studenti e operai europei e statunitensi presero posizione contro l’ideologia del capitalismo che proponeva il denaro e il mercato come centro focale della vita. La guerra del Vietnam non fu certo estranea alla rivolta generale e si legò alla battaglia per i diritti civili e all’ostilità verso il Capitale. Anche la famiglia tradizionale fu scossa dal rifiuto dell'autorità dei genitori e del conformismo dei ruoli. Furono messi in discussione anche le discriminazioni in base al sesso e alla razza.
Con la contestazione cominciò a diffondersi l’idea di un vestire più comodo, informale e meno elitario. Relativamente alla moda aumentò la richiesta di massa: essa era ormai un fenomeno che interessava i mercati internazionali e solo in piccola parte era riservata ad una elite ricca ed esclusiva. Solo le industrie poterono competere dal momento che  sfornavano capi di linea e taglio semplici, meno costruiti di quelli di sartoria; la lavorazione a catena e i tessuti sintetici e misti permettevano di tenere i prezzi bassi. In tal modo cominciarono a sgretolarsi il primato della haute couture e il mito di Parigi.

Gli anni Sessanta registrarono anche un mutamento dell’ideale estetico femminile e maschile. Non più le donne formose e sofisticate degli anni Cinquanta ma ragazze giovanissime, pallide e molto magre. Su questo nuovo modello si sviluppò lo stile sartoriale ormai dedicato ai giovani che case di moda e industrie avevano intuito come una nuova e promettente classe di consumatori. 
In questa nuova atmosfera si inserì lo stile di Paco Rabanne, al secolo Francisco y Cuervo, che come altri creatori di moda anticonformisti come Courrèges, Saint Laurent, Cardin, Ungaro cominciarono a eclissare la figura dei classici couturier. Tutto il percorso stilistico di Rabanne si era allontanato dalla tradizione: iscrittosi alla Scuola di Belle arti di Barcellona per diventare architetto e affascinato dalla Pop Art, dal Dadaismo e dalle sculture in materiali innovativi come il neon, la plastica, il ferro, si inserì in seguito nel mondo della moda creando accessori per il pellettiere Roger Model, poi il calzaturiere Charles Jourdan giungendo infine a Balenciaga. Convinto che la creatività non è seduzione ma choc, nel 1964 aprì la sua casa di moda inaugurando la sua prima collezione con abiti fatti soprattutto in rhodoïd, un materiale plastico rigido e a basso costo, colorabile e facilmente tagliabile. I pezzetti erano tenuti assieme da anelli metallici: non più ago e filo dunque, ma strumenti sartoriali quali pinze e ganci. Altro elemento scioccante: le modelle erano di colore,  mai viste prima nell’alta moda. La sfilata fece scandalo ed ebbe riflessi su tutta la stampa internazionale, mentre Cocò Chanel gridava: “Questo non è un sarto, ma un metallurgico!”. Ma il successo arrivò e Rabanne divenne un fenomeno alla moda: nel 1966 presentò all’Hotel Georges V dodici “vestiti importabili in materiali contemporanei” indossati da modelle scalze. In seguito, anche grazie ai progressi tecnologici, il sarto sbrigliò ancor di più la sua scatenata fantasia: nel 1967 lanciò una serie di vestiti pieni di accostamenti irriverenti: in carta, tessuti assieme a una trama di nylon e legati con bande adesive, in jersey di alluminio che imitavano i merletti, oppure in piume incollate a nastri, o in strisce di pelliccia lavorata a maglia  con elementi metallici. Per gli abiti da sera scelse sottilissimi tubi di plastica, mentre immaginò le sue spose vestite in rettangoli di rhodoïd opalescente.  
L’idea alla base della creazioni di Rabanne stava in una precisa volontà di democratizzazione della moda, unita certamente a un forte gusto per la provocazione. I suoi abiti erano adatti a silhouette sottili, a donne coraggiose che non temevano né il caldo, né il freddo, né la scomodità: “i miei modelli sono come delle armi” dichiarò a Marie Claire “Quando sono chiusi si ha come l’impressione di udire il grilletto di un revolver”. Sempre con tecniche artigianali realizzò tra il 1970 e il 1976 abiti in bottoni, vestiti in fazzoletti, maniche costruite con calzini, modelli in fasce di caucciù, ecc. In quanto agli accessori non erano meno stravaganti dei vestiti: caschetti in metallo, turbanti iridati, antenne e zampilli in plexiglass e alluminio.
Dopo lo sbarco sulla luna si era in pieno boom spaziale e molti couturier si ispirarono, come Rabanne, ad abiti siderali che mandavano bagliori luminescenti. Anche il mondo dello spettacolo richiese i suoi modelli: una delle prime attrici che lo seguì fu Audrey Hepburn nel film “Due per la strada”, nel 1966 vestì le ballerine del Crazy Horse, nel 1968 fece indossare alla cantante Françoise Hardy un abito in lamine d’oro con incrostazioni di diamanti e infine mise addosso a Jane Fonda, nel film Barbarella, un cortissimo e sensuale abitino in stile medievale fatto in maglia di metallo. La parabola di Rabanne terminò con l’ipotesi di abiti biodegradabili, in accordo con le nuove idee che predicavano il salvataggio della natura. Chiusa definitivamente la sua maison si ritirò dalla moda nel 1999.

Bibliografia: Lydia Kamitsis, Paco Rabanne, ed. Franco Cantini, Firenze, 1998; Guido Vergani, Dizionariodella moda, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010; Gabriella D’Amato, Moda e design, ed. Bruno Mondadori, Milano, 2007.

Bronzino e i costumi del Rinascimento fiorentino

Nella prima metà del Cinquecento era ormai finita la politica di equilibrio tra stati italiani ed era  iniziato un lungo periodo di conflitti tra potenze europee che vide vittoriosa la Spagna, sotto il cui governo l’Italia rimase fino al 1714. L’accenno storico non è casuale: l’egemonia di una nazione sull’altra ha riflessi anche sulla moda del paese sconfitto che tende ad adottare le fogge del vincitore. La moda spagnola cominciò a diffondersi in Italia con alcune caratteristiche sostanziali: l’uso del nero, e il progressivo irrigidimento degli abiti tramite busti e sottogonne a campana. Per lo stesso motivo le scollature, che nel pieno Rinascimento erano molto generose, cominciarono a velarsi fino a chiudersi del tutto verso la fine del Cinquecento. La fissità della figura tramite l’abito corrispondeva a precisi intenti di gerarchizzazione all’interno della superba nobiltà spagnola che aveva abbracciato totalmente la religione cattolica, ritenendosi un baluardo contro le pretese riformistiche che provenivano da Martin Lutero. Forse per questo motivo le vesti diventarono più caste, mentre il colore nero dimostrava un’adesione a principi di rigore morale che il Rinascimento aveva in parte abbandonato.
Il passaggio fu tuttavia graduale e durante la prima metà del secolo il costume italiano, che era stato al centro della moda europea, continuò ad evidenziare classe, equilibrio ed eleganza di particolari. In quest’ambito si colloca l’opera di Agnolo Bronzino, che ci ha lasciato nei suoi ritratti dalle linee e dai colori cristallini una preziosa testimonianza delle mode dell’epoca. Agnolo Bronzino, al secolo Agnolo di Cosimo Mariano (1503 – 1572) era figlio di un macellaio, ma riuscì tuttavia a diventare uno dei più importanti pittori italiani del suo periodo. Giunto a Firenze, allora assieme a Venezia e Roma il più importante centro dell’arte italiana, fece alcuni anni di apprendistato per poi diventare indipendente. Dopo il 1531 fu a Pesaro presso la famiglia della Rovere e dal 1539 fu chiamato alla corte di Cosimo I dei Medici a Firenze.
Alcune delle sue opere più note evidenziano l’altera ricchezza dei costumi di corte. Il ritratto di Lucrezia Panciatichi del 1540 circa mostra come la moda si fosse indirizzata verso forme più allargate di quelle quattrocentesche. La bellissima nobildonna, dalla pelle e le mani color porcellana, ha i capelli raccolti come voleva l’usanza per le donne maritate. Lo splendido abito di seta rossa dalle maniche accartocciate ha il busto irrigidito e non conformato alla linea del seno, con la scollatura velata e una ricca catena in oro con targhette su cui è scritto “Amour dure sans fin”. La cintura in pietre dure (lavorazione tipicamente fiorentina) pendeva davanti alla gonna quando Lucrezia stava in piedi. La camicia sbuca dai polsi con leggere arricciature, che al tempo erano chiamate “lattughe”. Il ritratto irrigidito in un’immobilità senza tempo, si adegua ai canoni di bellezza ed equilibrio descritti da Agnolo Fiorenzuola nel suo “Dialogo delle bellezze delle donne”. Pendant di questo quadro è il ritratto di Bartolomeo Panciatichi, marito di Lucrezia e al servizio di Cosimo I de’ Medici. Anch’egli è fissato in posa ieratica in un interno che rimanda all’architettura fiorentina del periodo. Bartolomeo ha un cappello a falde non larghe e una lunga barba ramata: i peli facciali erano per quel tempo un attributo indispensabile della virilità. L’abito si compone di una veste o “saio” nero, probabilmente lunga fino a metà coscia, e di un giuppone rosso (una giubba) sottostante. Entrambi hanno le maniche tagliate: questa moda, adottata anche dalle donne, distruggeva metri di stoffa preziosa che non poteva più essere recuperata.
Un altro famosissimo ritratto del Bronzino è quello di Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo de’ Medici seduta con orgoglio vicino al piccolo Giovanni, uno degli otto figli che darà al granduca e che sarà indirizzato alla carriera ecclesiastica. La gentildonna indossa una veste o “camora” dai superbi ornamenti e cosparsa se pur discretamente di gioielli, in special modo perle. Rispetto al ritratto di Lucrezia le maniche si sono ridotte abolendo i rigonfi e terminando con “spallini”: la scollatura è velata da una rete, mentre il tessuto si dispiega con un magnifico motivo rinascimentale in oro  broccato in forma di melagrana circondato da elaborati intrecci neri. Quest’abito, riesumato nell’Ottocento dalla tomba della duchessa, fu esposto anni fa in una mostra.
Uno dei più carismatici ritratti del Bronzino è infine quello della figlia illegittima del Granduca, Bia (1542 circa) una bimba di circa cinque anni morta prematuramente. Il ritratto offre lo spunto per una considerazione sull’abbigliamento infantile di epoca antica: l’infanzia non era riconosciuta come una condizione separata dall’età adulta e i bimbi erano educati e vestiti come i grandi. La piccola, che probabilmente ha un bustino, siede frontalmente su una sedia e solo le guance rosse e le labbra appena dischiuse in un sorriso ne rendono la freschezza dell’età. Elegantissima in un prezioso abito di seta bianco, è ingioiellata come una dama e porta al collo un medaglione aureo col profilo di Cosimo, evidente legame d’affetto che legava padre e figlia.

domenica 5 febbraio 2012

I costumi della Repubblica di Venezia

La Repubblica di Venezia, che si era data una forma definitiva di governo nel XIV secolo, era retta da un patriziato mercantile che ne aveva fatto il principale emporio europeo in tutto il Mediterraneo. Governata solo formalmente dal Doge, ma nella realtà dal Maggior Consiglio, era anche l’unico stato dove il Patriarca (il Vescovo) godeva di una certa indipendenza dalla Chiesa di Roma. I traffici con l’Oriente e la sua libertà, ne fecero il più potente stato italiano del XV secolo, e permisero l’arrivo di oggetti alla moda e di usanze altrove sconosciute. Probabilmente per questo motivo gli uomini e le donne veneziane assunsero presto costumi differenziati in parte dal resto d’Italia, senza soffrire delle limitazioni con cui le leggi sull'abbigliamento vigenti altrove costringevano la popolazione. 
Nemmeno la Caduta di Costantinopoli (1453) e la scoperta dell’America (1492) che pur ebbero gravi ripercussioni sui traffici mercantili, riuscirono a piegare la Serenissima, che cominciò a perdere la sua potenza dal XVIII secolo, brillando tuttavia ancora per le eccezionali qualità dei suoi artisti.
A cominciare dal XVI secolo, quando la moda spagnola imperversava in tutta Italia, racchiudendo la figura femminile dentro abiti rigidi e accollatissimi, i ritratti di Tiziano, del Veronese e del Tintoretto mostrano signore in vesti talmente scollate che solo un velo nascondeva i capezzoli. I colli di trine rialzati dietro la testa tramite armature metalliche nascoste, quasi a sottolineare il volto, erano molto diffusi, grazie anche all’abilità delle merlettaie di Burano, i cui segreti erano severamente controllati dalla Serenissima. Vestiti sontuosi erano corredati da  vari accessori: i Ventagli, che allora avevano una forma a banderuola e non erano pieghevoli; le scarpe che a Venezia erano chiamate Calcagnini o Ciopine, alte circa 50 centimetri e che obbligavano le signore a camminare appoggiandosi a due cameriere; gli orecchini a pendente, assoluta novità per quel tempo, biasimati perché – come osserva un cronista del tempo – foravano i lobi “a guisa di more”. I “Calzoni a la galeota” erano corte braghe al ginocchio nascoste sotto la gonna, forse introdotte in Italia da Lucrezia Borgia, e particolarmente indossate a Venezia dalle prostitute e dalle cortigiane. Cesare Vecellio, lontano parente di Tiziano e attento osservatore della moda contemporanea, ricorda nella sua famosa opera illustrata “Habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo” che le meretrici usavano “braghesse come gl’uomini” ossia un tipo di  abbigliamento che per l’epoca era sfacciatamente virile. Una delle glorie di Venezia era infine il colore dei capelli delle donne, una sorta di rosso tiziano, che si otteneva stando sedute per ore su un’altana, con indosso un  cappello senza cupola e a tesa larga, detto Solana, spalmandosi le chiome con acque a  base di cenere, guscio d’uovo, scorza d’arancio e zolfo. Anche nelle acconciature le veneziane dimostravano la loro originalità: alla fine del ‘500 una pettinatura a forma di corna era la più diffusa in città. Dalla fronte partivano due mezze lune di riccioli che - osserva sempre il Vecellio – sono “tanto alte, che pare cosa troppo sconcia”.
Alcuni testi contemporanei sono riferimenti fondamentali per conoscere la storia della moda veneta. Il libro del Vecellio, pubblicato a Venezia nel 1590, poi ampliato otto anni dopo, comprendeva più di 500 incisioni di abiti maschili e femminili veneziani e di altre città, estendendosi anche al resto d’Europa e all’Africa, all’Oriente, con un’ ulteriore aggiunta nella seconda edizione che includeva anche le vesti del Nuovo Mondo. L’autore cataloga gli abiti con riferimento al rango sociale, all’età allo stato civile, alle stagioni o alle occasioni festive. Abbiamo quindi le “donzelle”, le “spose”, le “donne attempate” le”vedove” le “orfanelle”, il Doge, gli ambasciatori, i cavalieri, i becchini, i galeotti, i contadini.
Nello stesso periodo l’editore-calcografo Pietro Bertelli   pubblicava in Padova una raccolta in 3 volumi intitolata “Diversarum nationum habitus” contenente 234 incisioni eseguiti parte da lui, parte da altri illustratori rimasti anonimi. Il veneziano Giacomo Franco invece realizzò tra l’altro un interessantissimo tomo intitolato “Habiti delle Donne Venetiane intagliate in rame nuovamente” con 19 incisioni in rame. L’eccezionalità del volume sta nella riproduzione di costumi indossati durante il carnevale o nelle tante feste che si svolgevano in città come la “Corsa dei tori”, negli abiti di cortigiane, o in quelli di attività sportive come la caccia. 
Durante il XVII secolo erano molto diffuse in Europa le feste in maschera, in particolare durante il Carnevale. A Venezia tale usanza era stata permessa fin dalla metà del Duecento, poi limitata, dal momento che si prestava a frodi e abusi; la chiesa inoltre disapprovava la maschera considerandola demoniaca in quanto il Maligno si era travestito da serpente per tentare Eva. Ma dal Seicento il Carnevale entrò sempre più nelle usanze popolari e l’uso di mascherarsi venne esteso a tutti i ceti sociali, con particolari regolamentazioni governative, che lo facevano iniziare il giorno di Santo Stefano e terminare alla Quaresima. Le maschere erano inoltre permesse dal 5 ottobre al 16 dicembre, quando Doge e procuratori venivano eletti, e in altre occasioni che non comportassero cerimonie penitenziali, al punto che si diceva che la città era mascherata per circa metà dell’anno. Il travestimento che nascondeva l’identità della persona,  era collegato alla gioia, alla galanteria ma anche al tradimento e alla libertà di uscire dagli schemi quotidiani. Gli artigiani che fabbricavano maschere si chiamavano a Venezia “Mascareri” e si erano riuniti in corporazione già dal XV secolo, suddividendosi i compiti di fabbricare la maschera in carta pesta o in tela cerata (targheri) e di dipingerla (dipintori).
Nel Settecento le maschere veneziane avevano alcune caratteristiche in comune: uomo e donna indossavano abiti normali ricoperti dal Tabarro, un ampio mantello circolare, solitamente bianco, nero o scarlatto. La testa però era nascosta dalla “Bauta”, un mantelletto nero a cappuccio, spesso lavorato in pizzo, che lasciava scoperta solo la faccia.  Sul capo era comune usanza appoggiare il Tricorno, il cappello a tre punte tipico del secolo. Sul  viso si metteva normalmente la “Larva”,  con naso a becco, bianca e spettrale. Il temine è di origine latina e significa “fantasma, spettro, spirito del male”: la sua forma permetteva da una parte di nascondere quasi completamente il volto lasciando però bocca e mento scoperti per mangiare e bere, mentre la voce usciva alterata per la volontà di non farsi scoprire.  
Molte donne invece, appoggiavano sul volto la “Moretta”, detta anche “Servetta muta” costituita da una piccola maschera ovale di velluto scuro, indossata con un delicato cappellino e con  indumenti e velature raffinate. La Moretta era un travestimento scomodo e muto, poiché doveva reggersi sul volto tenendo in bocca un bottone interno.
Un altro costume tipico del tempo era la "Gnaga" (derivato dal miagolio del gatto) un travestimento da donna indossato dagli uomini facile da realizzare e di uso comune. Gli indumenti femminili erano completati da una maschera con le sembianze di una gatta e da una cesta al braccio che poteva contenere un gattino.Chi indossava la gnaga imitava il modo di fare delle donne ma ne involgariva il linguaggio, utilizzando toni striduli, da cui l'espressione:"ti ga na vose da gnaga". A volte chi si travestiva così simulava di essere una balia, facendosi accompagnare anche da bambini e lamciando lazzi osceni ai passanti. Secondo i documenti del tempo i giovani uomini che indossavano questa maschera praticavano l'omosessualità. 
C’erano inoltre maschere ispirate al circo, come quelle “dell’uomo agile”, solitamente sui trampoli o dotati di curiose calzature a pattino, per poter camminare sulla laguna ghiacciata; il “Mattaccino” un pagliaccio che indossava una veste molto colorata e lanciava uova profumate dai balconi; il Bernardone, che fingeva di essere malato e camminava sorretto da due grucce. Per non dimenticare i personaggi della Commedia dell’arte e in particolare quelle di Carlo Goldoni, che contribuì a renderle famose in tutto il mondo. Molte di queste fogge sono raccolte nel libro di acquerelli di Giovanni Grevembroch, “Gli Abiti de Veneziani di quasi ogni età con Diligenza dipinti e raccolti nel secolo XVIII”. Il Grevembroch, di famiglia originaria dei Paesi Bassi dedicò un ventennio di vita a questa ricca raccolta in 4 volumi, modesta come fattura pittorica, ma fondamentale come documentazione.


http://www.delpiano.com/carnival/html/masks.html

Bibliografia: Rosita Levi Pizetsky, Storia della moda in Italia, Istituto editoriale italiano, vol. IV, Milano - 1969