domenica 13 maggio 2018

Quando gli uomini mostravano le gambe (e non solo quelle)


I pantaloni sono nati più di duemila anni fa grazie ai nomadi delle steppe che – vivendo la maggior parte della loro vita a cavallo – necessitavano di robusti gambali. 
Barbaro prigioniero
Ma a parte questi indumenti indispensabili in tali condizioni di vita, in gran parte del Medio Oriente e nell'Europa meridionale questo capo d'abbigliamento era sconosciuto: nella scultura che sovrasta il maestoso codice di Hammurabi, il dio-sole babilonese Ŝamaŝ che sovrintendeva alla giustizia, porta una vezzosa gonna a balze, mentre come è noto gli egiziani sopportavano il caldo spogliandosi il più possibile, donne e uomini compresi. Greci e romani indossavano una veste che arrivava sotto al ginocchio e, per quanto fossero infagottati dentro a imponenti mantelli, non potevano evitare di scoprire ampie porzioni di epidermide, ricorrendo – come Giulio Cesare o lo stesso Augusto – a delle rudi depilazioni per eliminare i peli superflui. Conquistando la Gallia i romani conobbero le brache, come si chiamavano allora, un indumento celtico stretto alla caviglia da lacci che da noi fu accolto con diffidenza, e che comunque fu sempre seminascosto dalla tunica. I gusti degli imperatori in materia variavano ed alcuni di loro emisero leggi suntuarie restrittive: i sovrani le avevano solitamente rosse (colore prezioso e regale) con eccezione di Alessandro Severo, che le portava bianche, ma sia Arcadio che Onorio le proibirono “intra Urbem venerabilem”, considerandole un'offesa pesante alla sacralità di Roma; nel Codice di Teodosio i contravventori erano addirittura condannati all'esilio perpetuo.
Calze solate
Pur nella scarsità della documentazione altomedievale sappiamo che in Occidente gli uomini indossavano vesti lunghe, ne più né meno che gli antichi romani, al punto che solo l'orlo fino a terra diversificava l'abito femminile da quello maschile. Più tardi, nel Duecento, alle antiquate brache larghe cominciarono a sostituirsi i cosiddetti “panni da gamba”, ossia calze - in tessuto e solo più tardi in maglia – allacciate ad alte cinture di cuoio. Si andava verso una differenziazione totale del costume dei due sessi: un secolo dopo le signore andavano matte per gli abiti a strascico e al massimo si scoprivano il seno, mentre la veste maschile diventò corta, stretta e corredata da calze lunghe ma staccate e allacciate a un farsetto (giubbetto) nascosto. Le gambe erano bene in vista e messe in risalto dal colore delle calze– ad esempio una scarlatta e l'altra verde vivo – e dall'apertura spuntavano mutande e camicia, suscitando imbarazzo e feroci critiche. Il notaio Giovanni Musso nel suo “Chronicon Placentinum”espresse in latino tutto il suo sdegno per quei vestiti che “ostendunt formam naticarum, genitalium et membri”, mentre Il Boccaccio che nella sua vita non era certo stato un santo, diventato moralista in vecchiaia definì quelle mode “detestabili e abominevoli”, facendo notare che le donne abbassando lo sguardo avrebbero potuto agevolmente “cognoscere che gli è maschio”. Infine, anche in relazione alle linee slanciate dell'architettura gotica, le calze avevano una suola sottostante e terminavano al piede con una lunga punta che veniva imbottita perché non si ripiegasse col camminare: foggia che è uno dei tanti esempi di come la gente alla moda sia ricorsa a ogni tipo di stranezza pur di farsi notare.
Vittore Carpaccio, Ritratto di giovane cavaliere
Il gusto per la bellezza del Rinascimento introdusse nel guardaroba eleganza, raffinatezza ed equilibrio sia nei tessuti pregiati sia nei copricapi e negli altri sofisticati accessori. Mentre gli uomini che esercitavano mestieri accademici come l'avvocatura, l'insegnamento o la medicina portavano panni lunghi e gravi adatti alla loro posizione sociale, i giovani continuarono ad esibire indumenti che ne mettevano in risalto le forme, anche con una nota di effeminatezza accentuata dai capelli lunghi, dal viso rasato e contemporaneamente dall'uso di tinture e profumi. A metà del Quattrocento si cercò di rimediare all'esibizione spudorata della biancheria, ma la toppa fu quasi peggio del buco perché le calzebrache, ora cucite sui glutei, avevano davanti un elemento di raccordo, una sorta di sportellino in tessuto, detto “braghetta”, che da una parte copriva i genitali, dall'altra li metteva in mostra, mentre nel frattempo i giubbetti si erano accorciati in vita. Bisognava essere ben fatti, avere natiche sode e gambe diritte e i giovani – specie quelli italiani - impazzivano per questa moda attillatissima che ne metteva in risalto la muscolatura ma scandalizzava i religiosi: San Bernardino da Siena infatti nelle sue prediche lanciava strali fulminanti contro i ragazzi vanitosi “col farsettino al bellico”; né meglio andava all'estero dal momento che agli uomini del corteo di Bianca Maria Sforza, andata in sposa all'imperatore Massimiliano I d'Asburgo, fu raccomandato di allungare quegli abiti indecenti. Qui da noi, con molta disivoltura, la braghetta era usata anche a mo' di tasca come nel ritratto di cavaliere del Carpaccio dalle cui calze rosse spunta per contrasto sull'inguine una lettera ripiegata.
Giovan Battista Moroni, Ritratto di Antonio Navagero
Durante il Cinquecento ci si spinse ancor più oltre e la braghetta assunse la forma di un corno rialzato, foggia che resterà, più o meno evidente, fino all'inizio del secolo successivo. La vanitosa e spudorata esibizione di virilità non risparmiò nemmeno le armature che in alcuni casi – come in quella di Enrico VIII custodita alla Torre di Londra – mostravano un promontorio metallico bene in vista tra le gambe. Sembra che nessuna tra le Leggi suntuarie si sia mai preoccupata di colpire questa sorta di astuccio penico. E' noto invece che ad Ascoli Piceno le donne, punite se osavano portare una gonna che mostrava le pianelle, protestarono fieramente contro l'ingiustizia affermando che la moda delle “brachette” da uomini era “desonestissima” e non avrebbero sopportato ancora di vederla. Nello stesso secolo le calze si divisero sopra il ginocchio: la parte che ricopriva la coscia cominciò ad essere imbottita e tagliata, anzi – come si diceva all'epoca – “accoltellata”. 
Giova Battista Moroni. Il cavaliere in rosa
La moda dei tagli proveniva dalle pittoresche uniformi dei Lanzichenecchi che avevano invaso la penisola e non si estendeva solo alle braghe ma a tutti gli indumenti, con grande spreco di tessuto pregiato. I calzoncini si fecero sempre più corti, rotondi e rigonfi, fatti di strisce verticali di tessuto da cui usciva la fodera sottostante e furono un elemento costante nell'abbigliamento maschile dell'ultimo periodo del XVI secolo. Erano detti “braghesse alla sivigliana” perché l'idea di questi rigidi e buffi palloncini giungeva dalla Spagna, stato che dominava l'Italia dal 1565 e – come spesso accade – aveva avviato oltre a una colonizzazione politica, anche un assoggettamento culturale, facendo perdere al nostro paese il primato della moda europea che aveva detenuto nel Rinascimento.
Il Barocco si affacciò in Europa con la sua ricchezza, la sua pompa e l'amore per i fronzoli spostando nuovamente l'asse del gusto estetico e guardando alla Francia come nazione dominante in tal senso. Con la decadenza del severo gusto spagnolo e il regno di Luigi XIV tutti copiarono le follie provenienti dalla corte di Versailles, ed è proprio in questo periodo che nasce la parola “pantalone”, un indumento largo e non fermato sotto al ginocchio che i francesi, innamorati della nostra Commedia dell'arte, avevano mutuato dall'omonima maschera veneziana.La parte inferiore delle gambe era messa in mostra e fasciata da lucide calze di seta che il Re Sole prediligeva di colore bianco perché ne mettevano in risalto i polpacci torniti di cui era particolarmente fiero. 
Calzoni alla rhingrave
Dopo la metà del Seicento gli uomini rinnovarono completamente il loro guardaroba indossando calzoni larghissimi e arricciati che arrivavano al ginocchio e che qualcuno ironicamente paragonava alle gonne femminili, anche perché erano pieni di nastri, fiocchi e merletti. Queste strane gonne-pantalone derivavano forse dal “girello” o “sottanino all'eroica”, tipico costume degli attori teatrali che interpretavano sulla scena parti da dei, semidei o mitici combattenti; oltralpe erano dette “rhingrave”, dal nome del conte del Reno (in tedesco Rheingraf) che per primo le aveva presentate a Versailles. Per non farle calare rovinosamente a terra nel frattempo erano state inventale le “brazzeruole”, le bretelle, che ritorneranno due secoli dopo nella moda maschile quando – scoperte le proprietà del caucciù – furono inseriti nel tessuto inserti di elastico.
Come tutte le mode anche questa durò poco e fu sostituita da pantaloni stretti, muniti di tasche, chiusi da bottoni e allacciati sotto alle ginocchia da un cinturino. 
Culottes. George Romne. Ritratto di gentiluomo
Le culottes – così si chiamavano in Francia – erano confezionate in seta come tutto il resto dell'abito e diventarono talmente aderenti da rendere l'atto del sedersi una questione quasi impossibile; per cui un gentiluomo previdente ne aveva almeno due paia, uno per le occasioni in cui sapeva di dover rimanere in piedi e l'altro, più largo, quando si aspettava di stare seduto e per non correre il rischio piegandosi di strappare il tessuto e mostrare natiche e mutande.Uno dei fratelli minori di Luigi XVI, il conte d'Artois amava molto questo scomodo indumento e si narra che avesse un modo tutto suo per infilarcisi, lanciandosi da un tavolo mentre i suoi valletti lo tenevano ben aperto. La gamba era in vista e ricoperta da calze aderentissime che ormai erano fatte a macchina; l'Italia invece era ancora divisa in stati e staterelli ognuno dei quali possedeva una sua dogana che apponeva un timbro sulle merci importate dall'estero; tra gli snob nacque così la mania di esibire il marchio di provenienza, giusto per far sapere a tutti che il prodotto era stato acquistato a Parigi.
Louis Léopold Boilly, ritratto dell'attore Chenard in abiti da sanculotto
Con le culottes era impossibile svolgere qualsiasi tipo di lavoro, ma questo ovviamente non preoccupava la nobiltà, che faceva dell'ozio uno degli scopi della vita. Cominciavano tuttavia a risuonare gli squilli della Rivoluzione francese e tutto doveva cambiare, anche lo stile dell'abbigliamento. Dal 1791 in Francia una delle fonti di ispirazione per l'abito dei patrioti che volevano abbattere l'Ancien régime furono i vestiti sciolti dei lavoratori- operai, marinai, contadini – che indossavano pantaloni ampi e lunghi; il nome sanculotto che indicava un rivoluzionario radicale, deriva appunto da “sans-culottes”, privo delle odiate braghe attillate dell'aristocrazia. Stava nascendo il pantalone moderno che avrebbe definitivamente nascosto la parte inferiore del corpo maschile, anche se da noi avrebbe incontrato qualche resistenza, associato com'era “all'idea di giacobinismo, mancanza di modesta e lascivia”. Con un editto del 1799 re Ferdinando di Borbone proibì i calzoni lunghi e solo quattro giorni dopo la sua polizia spedì in convento un irriguardoso abate che aveva osato indossarli. Come si sa anche la moda ha i suoi martiri.

Fonti: Rosita Levi Pizetsky, Il costume e la moda nella società italiana, Einaudi; Vittoria de Buzzaccarini, Pantaloni & Co, Zanfi editori



mercoledì 28 febbraio 2018

Pulizia e sporcizia: il corpo e l'acqua prima della Rivoluzione francese

Memmo di Filippuccio, il bagno degli amanti

I nostri antenati vissuti prima di Cristo avevano un debole per l'acqua, e bagni pubblici e privati erano ampiamente diffusi nell'area del Mediterraneo: dall'isola di Creta, i cui palazzi possedevano sofisticatissimi sistemi idraulici, alla Grecia, e naturalmente agli antichi romani per cui la pulizia era una virtù sociale. Nel periodo di massimo splendore dell'impero dodici acquedotti portavano in città 1350 litri al giorno di acqua pro capite, molto più di quella attuale, distribuita fra edifici termali, fontane, cisterne, bagni privati e latrine pubbliche; le terme decaddero solo con le invasioni barbariche quando i Goti – che si bagnavano al massimo nei fiumi - scollegarono gli acquedotti e decretarono la chiusura definitiva degli stabilimenti.
San Simeone stilita
Il Cristianesimo promosse la santità della sporcizia: se da un lato il corpo era il tempio di Dio, dall'altro era guardato con sospetto perché fonte di tentazioni erotiche; San Girolamo ad esempio riteneva che gli inevitabili toccamenti del bagno potessero accendere il desiderio sessuale e finì per proibirlo alle vergini. Dal IV al V secolo, il corpo non lavato diventò un segno distintivo di perfezione spirituale: Sant’Agnese – martirizzata sotto Diocleziano - dopo il battesimo non volle toccare più acqua, mentre l'anacoreta siriano San Simeone resistette per 37 anni in cima a un pilastro senza né scendere né pulirsi. L'odor di santità che noi colleghiamo con meravigliosi effluvi floreali, all'epoca era il terribile fetore di un uomo che in tutta la vita non aveva mai pulito né sé stesso né la propria veste. I meno rigorosi però – ricordando che Cristo aveva lavato i piedi agli Apostoli – arrivarono ad ammettere che era impossibile imporre a tutti queste scelte radicali e che per un cristiano l'igiene poteva anche essere un conforto e una fonte di salute. Tra questi c'era San Gregorio Magno che nel VI secolo manifestò una certa tolleranza verso le norme sanitarie, proibendo qualsiasi abluzione dettata da “lussuria e voluttà”ma permettendole solo in caso di bisogno “poiché nessuno odia la carne ma la nutre e la cura”. L'incerto placet della Chiesa cattolica fece sì che l'angolo più pulito dell'Europa medievale fosse la Spagna occupata dagli Arabi che consideravano l'igiene personale un requisito fondamentale: a loro si deve l'invenzione degli hammam, bagni pubblici molto più piccoli delle terme romane ma muniti di vasche e locali per sudare.
Bagno arabo a Girona, in Spagna
Nel resto dell'Occidente la pulizia stentava ad affermarsi: ci si lavava soprattutto le mani a tavola, cosa raccomandata dai manuali di buone maniere, per l'ovvio motivo che non essendo diffuse ancora le forchette, si acciuffava il cibo con le dita e si riteneva cafone pulirsi l'unto con le maniche o con la tovaglia. A reintrodurre il bagno pensarono i Crociati al ritorno dalla Terra Santa, che portarono anche con sé usanze arabe come i saponi profumati ottenuti con soli grassi vegetali come l’olio d’oliva e d’alloro. Dopo il XII secolo I bagni medievali – detti stufe - sorsero spesso vicino a sorgenti termali calde, ma anche nelle città non mancarono locali che contenevano parecchie tinozze dove potevano sedersi anche sei persone per volta; se non si reputava disdicevole farsi il bagno nell'acqua dove era passato uno sconosciuto, per quanto riguarda gli amanti poteva addirittura capitare che il cavaliere bevesse il liquido dove si era lavata la sua dama, considerandolo un sublime privilegio.
Una stufa medievale
L'accesso alle stufe era consentito a tutti, in un'allegra mescolanza di sesso e di età. Il problema sorse quando i bagni pubblici cominciarono ad essere frequentati da prostitute, e luoghi che un tempo erano dedicati all'igiene si trasformarono in schiamazzanti bordelli provocando le proteste dei cittadini.
La promiscuità causò inevitabilmente la diffusione di varie patologie e finì così che tra il XIV e il XV secolo le autorità (benedette dal clero che sentiva in quei luoghi puzza di zolfo) iniziarono a imporre la chiusura degli stabilimenti.
Ciononostante le malattie continuarono a propagarsi, in parte a causa della sporcizia delle città dove non esistevano scarichi fognari e gli animali defecavano in libertà nelle strade, in parte a causa di guerre e viaggi in cui mezzi di trasporto angusti (come ad esempio le navi) impedivano agli occupanti di lavarsi e li costringevano a convivere con ratti e parassiti.
Le epidemie falcidiarono a più riprese la popolazione nel corso del XIV secolo, in particolare quella di peste nera che uccise nell'arco di quattro anni tra i venti e i venticinque milioni di persone, un terzo della popolazione europea. La facoltà di medicina dell'Università di Parigi cercò di indagare sulle cause del morbo: dopo aver individuato la funesta congiunzione di Saturno, Giove Marte, i professori giunsero alla conclusione che la causa di tutto erano i bagni caldi che aprendo i pori lasciavano penetrare nel corpo il “vapore pestifero”, una sorta di invisibile miasmo che secondo le credenze del tempo circolava nell'aria. Il colpo di grazia fu dato dalla comparsa della sifilide alla fine del XV secolo istigando l'idea che l'acqua “nuocesse alla vista, generasse mal di denti e catarro” e rendesse la pelle più sensibile agli elementi e al clima. Se questa bizzarra teoria fu il il requiem delle terme pubbliche, le stanze da bagno diventarono una soluzione raffinata e confortevole solo per alcuni ricchi stravaganti e privilegiati come papa Clemente VII de' Medici, che volle uno stanzino da bagno con vasca munita di acqua calda e fredda in Castel Sant'Angelo. Leonardo da Vinci – precursore in tutto, anche nell'igiene – progettò invece una città ideale con la rete fognaria sotterranea collegata a corsi d'acqua.
La stufetta di Clemente VII
Alla fine del Cinquecento la Spagna si allineò con la sporcizia del resto d'Europa; Isabella di Castiglia cacciò i mori, mentre quelli rimasti furono costretti a convertirsi al cristianesimo. La loro buona fede doveva essere provata anche dall'abbandono di ogni pratica igienica, pena l'essere spediti davanti all'Inquisizione. La regina, che fece voto di usare la stessa camicia fino alla fine della guerra nei Paesi Bassi (durata altri tre anni) diventò un'eroina nazionale dando anche il suo nome (color Isabella) all'inevitabile nuance marrone della sua biancheria. Anche nel resto d'Europa il corpo incrostato di sudiciume fu un obiettivo da perseguire. Lavarsi significava semplicemente farsi versare liquido sulle mani, le stesse con con cui si mangiava e ci si soffiava il naso, anche perché la forchetta continuava a non essere d'uso comune. Il must era la pulizia a secco: testa e capelli erano frizionati solo con crusca e cipria per assorbire il grasso, mentre il viso era strofinato con un panno asciutto. Il resto del corpo era ignorato anche perché nascosto dai vestiti, mentre solo le prostitute si lavavano le parti intime. I denti subivano lo stesso destino, le carie erano frequentissime, l'alito pestilenziale, e se il male era insostenibile si pregava Sant'Apollonia o si finiva per ricorrere al cavadenti, professione esercitata anche dai barbieri e soprattutto senza anestesia.
George de La Tour, donna che si spulcia
Il fetore insopportabile era nascosto da un mix di profumi molto pesanti come ambra, muschio, zibetto e intense misture aromatiche, mentre l'acqua – come nella Versailles di Luigi XIV – aveva l'unico scopo di decorare con imponenti getti i giardini reali. Il trionfo della sozzeria fece sì che una popolazione galoppante di pidocchi e parassiti prendesse possesso del corpo umano. Essendo impossibili da eliminare senza adeguate cure si ricorreva allo spidocchiamento vicendevole come gesto di amicizia e amore, ed esistevano donne che lo facevano per professione. Malattie della pelle come la scabbia o le infezioni fungine erano molto comuni e non si trovava miglior rimedio che tentare di sopprimerle modificando l'equilibrio degli umori - che fin dai tempi di Ippocrate si pensava presiedessero alla salute - ad esempio consigliando di astenersi da alcuni cibi e bevande come la carne rossa. L'ignoranza totale di qualsiasi norma igienica portò addirittura a credere che i parassiti nascessero dalla decomposizione delle secrezioni corporee che potevano essere assorbite solo dal tessuto di lino della camicia, che era lunga, larga e arricciata. Il cambio di biancheria si intensificò nel XVII secolo quando si arrivò a una frequenza settimanale, raramente giornaliera, con ovvio riferimento alle classi alte.
Bagno di Maria Carolina alla Reggia di Caserta
Le cose cominciarono a modificarsi solo con l'Illuminismo settecentesco, uno dei cui temi principali fu l'esaltazione della bontà della natura (finalmente non corrotta da malefici “vapori”) e l'aspirazione a ricondurre l'uomo alle sue originarie condizioni. L'affermazione del metodo sperimentale e lo sviluppo delle conoscenze in campo chimico permisero le prime indagini sulla composizione delle acque fino al riconoscimento dei benefici del bagno termale. Come conseguenza, dopo la metà del XVIII secolo fu sviluppata più attenzione nei riguardi della pulizia, al punto che il locale da bagno diventò una nuova presenza nelle abitazioni signorili: le nuove stanze erano calde, lussuose e raffinate ed erano luogo in cui – oltre alla pulizia – ci si ristorava e si intrattenevano conversazioni con gli amici. Senza osare troppo sembrò una cosa ragionevole fare un bagno un paio di volte all'anno, in primavera e in estate, non volendo imitare le stranezze di Maria Antonietta di Francia che entrava nella vasca tutti i giorni. Ma la più strabiliante invenzione del secolo fu il bidè, comparso attorno al 1720 come oggetto di lusso. 
Louis Leopold Boilly, La toeletta intima
Non sappiamo chi ebbe l'idea ma la società elegante impazzì per questo pregevole mobile portatile in legno pregiato con vaschetta in ceramica o stagno. Alcuni bidè sono entrati nella storia, come quello della Pompadour che aveva flaconi di cristallo incorporati o quello in argento che Casanova regalò a una giovane amante. Assieme al bagno caldo nacque la passione per quello freddo dapprima nei fiumi e poi nel mare, anche questo supportato dalla curiosa convinzione – tipica delle classi borghesi in vista della Rivoluzione francese - che il calore fosse sinonimo del rilassamento dei costumi aristocratici. Intanto la ventata illuminista stava aprendo le menti all'igiene sociale e del lavoro: ricerche demografiche mostrarono lo stato miserevole in cui si trovava la classe popolare, si crearono servizi di polizia sanitaria e legislazioni più attente alla salute collettiva. Alla fine del secolo era ormai in atto lo sviluppo verso il miglioramento fisico dell’uomo e quello ambientale delle città e delle abitazioni, che avrebbe visto un notevolissimo incremento nell’Ottocento.


Fonti:
Lawrence Wright, Civiltà in bagno, Garzanti; Alain Corbin, Storia sociale degli odori, Bruno Mondadori; Georges Vigarello, Lo sporco e il pulito. L’igiene del corpo dal Medio Evo ad oggi, Marsilio; Katherine Ashenburg, Storia della pulizia e della sporcizia del corpo, Odoya

mercoledì 31 gennaio 2018

Il velo femminile: ascesa e caduta di un accessorio ambiguo

Donna in preghiera, Catacombe di San Gennaro

L'usanza di coprire il capo femminile con un pezzo di stoffa - velo, fazzoletto o mantello che sia - non è e non è stata una prerogativa dell'Islam, ma è diffusa da secoli in tutto il mondo e in tutte le culture, non esclusa quella cattolica. Prima di Maometto, che morì nel 632, sia in Europa che in Arabia le donne si velavano la testa, usanza collegata con la simbologia attribuita ai capelli che se in un uomo esprimevano la forza vitale – come nella storia biblica di Sansone le cui lunghe chiome gli facevano compiere azioni sovrumane - in una donna erano un potente richiamo su cui si concentrava tutta la carica allusiva sessuale che il velo tentava di contenere. Si deve agli Assiri più di tremila anni fa l'introduzione per legge dell'uso del velo, riservato alle donne di casa (mogli, figlie e concubine) durante le uscite pubbliche. Anche nell'Antico Testamento se ne parla diverse volte, sottolineando l'ambivalenza di questo tessuto che nasconde e al tempo stesso suggerisce una bellezza da cogliere: dalla Genesi, in cui Rebecca si copre il capo in segno di sottommissione andando incontro a Isacco, suo futuro marito, al Libro del profeta Isaia che – molto più malevolo – fa dire al Signore che renderà tignoso il cranio delle superbe figlie di Sion e le spoglierà di ogni ornamento, velo compreso, al Cantico dei Cantici dove un uomo innamorato e infiammato dichiara alla bella Sulamita che i suoi occhi seminascosti dal velo gli appaiono come colombe.
Vibia  Sabina, moglie
dell'imperatore Adriano
Non sempre nell'antichità le donne andavano a capo coperto, cosa che poteva dipendere dall'età o dallo stato civile: se le giovanissime potevano esibire le chiome per attirare pretendenti, le sposate le nascondevano in segno di fedeltà nei riguardi del marito. Così fa Penelope nell'Odissea quando scende dai suoi appartamenti per parlare ai Proci; così facevano le matrone romane che – anche se più libere delle greche – quando uscivano si coprivano la testa con un velo o il lembo del mantello. Dobbiamo a San Paolo nella prima lettera ai Corinzi una severa prescrizione circa l'uso del velo femminile che farà scuola nel Medioevo; l'apostolo infatti afferma decisamente che la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza dall'uomo e che se proprio non si vuole velare è meglio che si rada i capelli. Seguendo il suo esempio in peggio, apologeti e padri della chiesa fecero a gara per scagliarsi contro l'altra metà del cielo, ritenuta da Tertulliano “la porta di Satana” con riferimento alla caduta dell'umanità tramite Eva; è proprio all'apologeta cartaginese che si deve il “De virginibus velandis” un trattato in cui si sistematizza la copertura della testa, non solo in segno di modestia, ma anche come una sorta di disciplina per le reprobe in segno di espiazione per la colpa della progenitrice.
Vitale da Bologna, Madonna dei denti
Prima del Mille l'abbigliamento maschile e femminile ebbe caratteri di sostanziale uniformità tranne che per la diversa lunghezza delle vesti; la moda caratterizzata dalla mutevolezza con cui la intendiamo non era ancora nata (gli abiti si lasciavano addirittura in eredità) ma col proseguire del Medioevo, i numerosi viaggi che fecero conoscere in Europa costumi stranieri e il maggiore profitto dei ceti cittadini, aumentò la varietà e la ricchezza dei corredi. L'ideale della donna angelicata perseguito dalla lirica trobadorica ne fece un sogno irragiungibile permeato di gentilezza e di onestà un'angelica creatura dai capelli biondi e dalla pelle chiara che Petrarca, ricordando la sua Laura, vede avvolta in un “bel velo”. Dal XIII secolo in poi questo capo di abbigliamento soddisfece sì l'esigenza moralistica di coprire i capelli, ma al tempo stesso diventò un oggetto elegante che incorniciava con grazia il volto e ne faceva risaltare l'ovale. Lo possiamo vedere nelle numerosissime Madonne dipinte – un esempio per tutte la “Madonna dei denti” di Vitale da Bologna – che sotto un raffinato mantello mostra un velo trasparentissimo accompagnato dal soggolo, una striscia di tessuto che cinge il collo poi passata all'abbigliamento monastico femminile. Sempre più frequente diventò l'uso di coroncine di fiori e di metallo e delle bende, ossia di leggere fasce di tessuto che passavano sotto la gola e sul capo esponendo agli sguardi maschili le belle trecce: lo scandalo montò e le lussuriose furono dipinte negli affreschi che rappresentavano il Giudizio Universale mentre venivano trascinate all'inferno con tanto di acconciatura alla moda. La Chiesa intervenne: nel 1279 il potente cardinal Latino Malabranca emanò una serie di Costituzioni l'ultima delle quali se la prendeva con gli abiti femminili: in particolare si ordinava alle ragazze sposate di età superiore ai 18 anni di indossare il velo pena la mancata assoluzione in confessionale, cosa che – racconta il cronista Salimbene de Adam – per le donne fu più amara della morte. Le reazioni a tanta severità però non mancarono, e le più audaci si fecero fare veli di bisso e di seta intessuti d'oro, sì da sembrare ancora più belle e seducenti.
Hans Memling, Giovane donna con garofano
Col moltiplicarsi delle fogge durante il Trecento e il Quattrocento, si passò definitivamente dal semplice panno appoggiato in testa a vere e proprie acconciature o copricapi a dir poco spericolati. La moda che introduce il Rinascimento – raccontata dalle cronache e dalle Leggi suntuarie ma ancor più dai dipinti e dai ritratti- è ricca di grazia e fantasia. Ormai solo le donne in età si avvolgevano il capo in modo semplice e modesto: per le altre si diffusero curiosi copricapi provenienti dal settentrione d'Europa; quello che a noi è noto come “cappello delle fate”, ossia un altissimo cono che all'epoca si chiamava “hennin”, ebbe successo più che altro all'estero o presso le mogli dei mercanti e banchieri che trafficavano al nord, ed era allungato ulteriormente da un velo sorretto da una leggera incastellatura metallica. In Italia invece furoreggiò la “Sella”, un copricapo a due corna sormontato da tessuti leggeri e preziosi, preso di mira dai predicatori che vi vedevano un sedile voluto dal diavolo per riposare meglio. Ma il velo era anche oggetto costoso e soggetto al furto, come testimoniano gli statuti di Perugia: i ladri, donne o uomini che fossero commettevano un duplice reato appropriandosi di un bene altrui, ma anche attentando alla modestia della derubata e all'onore del marito, ancor più se l'atto era accompagnato da insulti o addirittura da violenza sessuale; la sbrigativa giustizia d'altri tempi puniva i rei con multe severe e a volte perfino con la pena di morte tramite impiccagione.
Al giorno d'oggi se parliamo di velo ci viene in mente quello bianco delle spose, ma non è sempre stato così perché un tempo esse indossavano abiti coloratissimi; le antiche romane il giorno delle nozze si cingevano con un rettangolo di tessuto trasparente, il flammeum, di colore rosso o aranciato, una tinta beneaugurale probabilmente collegata al fuoco che la padrona di casa doveva mantenere vivo. Il flammeum simboleggiava il passaggio dalla casa paterna a quella del marito e dalla condizione di vergine a quella di sposa e madre. Nel Medioevo e nel Rinascimento la nubenda poteva portare un copricapo alla moda riccamente decorato, come ben si vede nello splendido cassone nuziale della moglie di Boccaccio Adimari, conservato alle Gallerie dell'Accademia di Firenze. Oltre al colore rosso ci si poteva anche vestire di nero, che non era necessariamente una tinta luttuosa, ma piuttosto signorile specie se arricchita con sontuose finiture in oro. L'abito bianco venne di moda solo nella prima metà dell'Ottocento, quando Pio IX proclamò il dogma dell'Immacolata Concezione.
Abiti da lutto vittoriani
Per le vesti da lutto le antiche norme suntuarie cercarono più che altro di contenere le spese relative al costo della cerimonia, ordinando che il velo da cordoglio fosse semplice e di poco valore e che fosse portato per un tempo limitato; in Francia invece le regine vedove si vestivano di bianco come fece Maria Stuarda alla morte del marito Francesco II. Con l'abolizione delle leggi suntuarie dalla fine del Settecento in poi il completo da lutto entrò a far parte di ogni guardaroba aristocratico o borghese. A causa dell'altissima mortalità dovuta alle malattie nel periodo antecedente la scoperta degli antibiotici, i decessi erano frequenti ed era comune incontrare persone in abiti funerei. Il lutto era regolamentato dalla tradizione e dalla religione e cambiava a seconda del grado di parentela del defunto. Si divideva in lutto grave, mezzo lutto e lutto leggero, passaggi che duravano da un anno ad alcuni mesi e che comportavano un progressivo alleggerimento delle gramaglie e la possibilità di ricominciare a indossare gioielli; nel primo periodo le signore si vestivano completamente di nero accessori compresi, mentre il lungo velo vedovile in tessuto di crespo spesso copriva totalmente il viso. Un tipico caso di lutto stretto fu quello della Regina Vittoria d'Inghilterra, che dalla morte del marito Alberto nel 1861 non volle più abbandonare gli abiti vedovili.
Il Novecento è il secolo in cui il velo da testa viene completamente abbandonato anche in chiesa, come stabilito dal Codice di Diritto Canonico nel 1983. Oggi al centro di ogni discussione è solo il velo islamico. Per fare chiarezza il Corano ne auspica l'uso alle donne dei credenti – senza specificarne la forma – e solo come protezione contro le offese (Sura XXXIII, v.59). 
Hijab e Nikab
Tra vari tipi di veli e fazzoletti ricorderei: quelli che nascondono solo la testa lasciando scoperto il viso come il comunissimo Hijab – che le stesse donne musulmane considerato un importante e comprensibile elemento identitario - quelli che occultano tutto il corpo senza celare la faccia – il Chador iraniano – e quelli che avvolgono totalmente la donna come il Burka afganistano e l'altrettanto intransigente Nikab dell'Arabia saudita, da cui spuntano solo gli occhi. La legge italiana ammette la copertura della testa e del corpo purchè sia possibile l'identificazione dell'individuo – vietando anche maschere e caschi integrali – a meno che non ci sia un “giustificato motivo” come appunto la tradizione religiosa. Il terrorismo Jihadista ha portato diversi stati europei a formulare leggi che proibiscono il velo integrale. In Italia giace in Parlamento dal 2007 una proposta per vietare il burka su tutto il territorio nazionale: vedremo come va a finire. Personalmente sono contraria a chiudere la femminilità in un sacco e aggiungo solo che – riguardo al desiderio – ci sono infiniti modi per esprimerlo come ben sapevano le nostre morigerate nonne quando facevano cadere “distrattamente” per terra davanti al loro Lui un fazzolettino ricamato.

Fonti:
Maria Giuseppina Muzzarelli, A capo coperto. Storie di donne e di veli, il Mulino

giovedì 12 ottobre 2017

Le dure leggi medievali sull'abbigliamento e i segni di esclusione sociale


Lebbroso con battola
Sembra impossibile, ma prima della Rivoluzione francese non ci si poteva vestire come si voleva. I regolamenti sull'abbigliamento sono molto antichi: già dal tempo dei romani la Lex Oppia (215 a.C.) proibiva alle donne di indossare abiti colorati con la porpora - prodotto costosissimo ricavato da un mollusco gasteropode - riservato per il suo valore solo ad uso sacerdotale e regale, mentre uguali restrizioni erano destinati ai gioielli. In Europa le leggi Suntuarie (da sumptus, spesa) furono, specie dal medioevo, una normativa costante che regolava la moda maschile ma soprattutto femminile cercando di ricondurla alla semplicità nel quadro della lotta alle vanità propugnata dal cristianesimo. Un tipico esempio è il caso delle Costituzioni del cardinal Latino Malebranca – legato pontificio per la Lombardia, la Toscana e la Romagna – che nel 1279 volle stabilire la lunghezza massima degli strascichi femminili oltre a obbligare le donne a portare il velo, pena la mancata assoluzione, cosa gravissima per quei tempi. L'opera dei legislatori laici si affiancò alle posizioni dei moralisti e dei predicatori causando una lotta che sarebbe durata secoli, tra chi vietava e chi eludeva il divieto con risultati talora comici: ad esempio, per tornare alle Costituzioni suddette, un cronista narra che le donne misero sì il velo, ma l'ornarono furbescamente con liste d'oro in modo da sembrare più belle.
Tarocchi Gringonneur, Il Matto
Un ulteriore punto importante – e per noi odioso – era che la funzione del vestito doveva contraddistinguere le classi sociali: in molte città medievali infatti un pervicace spirito di casta escludeva dal lusso la borghesia, certamente ricca ma priva di potere politico. A capi di governo, signori, magistrati, dotti e cavalieri e relative mogli erano permessi indumenti e decori altrimenti proibiti ai più, con corollario di multe e punizioni crudeli come a Firenze, in cui si fustigavano sulla pubblica piazza le fantesche ree di aver le maniche chiuse da un'abbottonatura che superava il gomito. Malignamente si può anche notare che – essendo tutti i legislatori uomini – erano molto tolleranti col loro sesso, ma non altrettanto con l'altra metà del cielo, molto più duramente bersagliata.
Nella società europea antica chi non si sottometteva alle leggi della morale, basate su molti passi della Bibbia ripresi anche dalla regolamentazione laica, era un escluso e un infame: il cittadino ideale era cristiano, osservante, maschio, abbiente e di reputazione integerrima. L'elenco degli esclusi è lungo, a cominciare dai ladri, dai violatori di luoghi sacri, dagli spergiuri ai calunniatori, fino a tutti i tipi di malfattori compresi i peccatori della carne come gli adulteri, che nel nord Europa venivano rasati a zero e frustati in pubblico; c'erano poi coloro che conducevano una vita errante (come gli attori), o che professavano mestieri disonesti come chi aveva a che fare col sangue (macellai e carnefici), la sporcizia (tintori), il denaro (usurai). Si fuggiva anche dagli ammalati come i pazzi e i lebbrosi (per “lebbra” si intendevano anche malattie della pelle come herpes, eritemi e altre infezioni cutanee) che non solo dovevano vivere lontano dai luoghi abitati, ma che erano obbligati a indossare un abito con cappuccio bianco e a far suonare la cosiddetta “raganella”, un aggeggio rumoroso che annunciava il loro arrivo permettendo alla gente di scappare.
Giotto, Il bacio di Giuda
Si considerava il contagio come un evento non solo fisico, ma anche psicologico: per sottolineare la marginalità furono quindi elaborati segni da portare addosso per marcare l'estromissione dal consorzio civile. Una serie di norme particolarmente feroci colpirono nel medioevo le prostitute: nel XIV secolo in alcune città italiane erano obbligate a portare un sonaglio attaccato al cappuccio, in altri posti erano vietati loro abiti lussuosi, che invece a Firenze erano permessi nell'improbabile speranza di accomunare al malcostume bottoni d'argento, tessuti preziosi, gioielli e di tenerne lontano le signore oneste. In Sicilia le donne di malaffare erano obbligate a calzare i tappini, un particolare tipo di zoccoli di legno da cui è derivato il nome “tappinara”, in dialetto meretrice. Idem dicasi per i ruffiani che a Padova erano obbligati a uscire con un cappuccio rosso in testa, pena una sonora battitura. In Francia, dove il pio e bigotto San Luigi aveva tentato invano di espellere le donne scostumate dal paese, esse furono costrette a portare un nastrino rosso che cadeva sulla spalla. Più che il colore rosso però il giallo era considerato fin dall'antichità simbolo di tradimento, truffa e malattia, e così Giotto dipinge il mantello di Giuda negli affreschi della cappella Scrovegni; a Firenze e Venezia le prostitute dovevano indossare elementi gialli collegati con l'abito, anche se quest'usanza cominciò a decadere man mano che il mestiere venne regolato e istituzionalizzato e i governi diventarono più tolleranti. Un esempio di tale indulgenza a Venezia è la nota vicenda del “Ponte delle tette” tuttora situato tra i sestieri di San Polo e Santa Croce: tutta la zona era un vero e proprio quartiere a luci rosse, luogo di adescamento delle “carampane” chiamate così dalla ricca famiglia dei Rampani, che – priva di eredi - aveva lasciato le sue case (ca' in dialetto) in eredità al governo. Le prostitute che lì esercitavano avevano ottenuto dalla Serenissima stessa il permesso di esporre il seno nudo per combattere la diffusione dell'omosessualità.
Roman de la Rose, Due amanti con coperta a righe

Un ulteriore carattere discriminatorio avevano le righe, specie quelle che alternavano tinte complementari come il rosso e il verde assieme al solito giallo, e quindi applicate – oltre e tanto per cambiare alle meretrici – anche a coloro che esercitavano lavori disonorevoli come i saltimbanchi, i giullari, i carnefici, i mugnai (considerati anche dalla novellistica furbi e arraffoni) e i fabbri, ritenuti – chissà perché – stregoni. L'input venne come al solito dal Levitico (19,19) che proibiva di indossare vestiti composti di materiali diversi. Quando poi nel Trecento e nel Quattrocento la moda si accese di un forte cromatismo che poteva confondere chi guardava, le vesti a strisce furono specialmente destinate all'uniforme della servitù, proprio perché reputata una categoria inferiore.
Il gruppo umano più perseguitato fu però quello degli ebrei, accusati dai padri della Chiesa di deicidio (cosa che sarà superata solo nel 1965 dal Concilio Vaticano II). Tutto era iniziato col Concilio di Nicea del 325 dopo Cristo, in cui si stabiliva che essi potevano continuare ad esistere se pur in stato di sottomissione e umiliazione. Successivamente fu un continuo crescendo, a cominciare dal divieto di sposarsi con cristiani, continuando con l'esclusione dalle cariche pubbliche, per poi passare al battesimo forzato, dopo il quale i convertiti subivano ancora moltissime restrizioni ed indicati con epiteti ingiuriosi come in Spagna, dove erano chiamati “marrani” (porci). In diversi casi furono cacciati dai paesi di residenza o massacrati con l'accusa di omicidio rituale di bambini. Il tutto alternato a periodi di relativa calma e stabilità, perché si trattava pur sempre di un popolo di grande cultura che assolveva a servizi cruciali come la traduzione e diffusione di testi arabi scientifici, la finanza, l'amministrazione e la medicina.
Les miracles de la Vierge, All’estrema destra un ebreo con la rotella
Nel 1215 papa Innocenzo III indisse il IV Concilio lateranense in cui tra l'altro si permetteva ai giudei di praticare come unici mestieri la vendita di abiti usati e il prestito di denaro, e gli si imponeva di indossare una marchio distintivo vivacemente colorato. Allo stesso modo si colpivano i musulmani che vivevano nei paesi cattolici, i quali a loro volta avevano imposto abiti che identificassero i non credenti nei territori a maggioranza islamica. Appellandosi alle sacre scritture Innocenzo III dichiarava esplicitamente che lo scopo della nuova legge era di evitare mescolanze sessuali “maledette” tra cristiani, giudei e saraceni. In Europa l'ordinanza papale non si diffuse immediatamente: da principio iniziò Inghilterra, a seguire gli altri regni, mentre in Italia il primo avamposto del nuovo razzismo fu la repubblica di Venezia. Regole più dettagliate circa il tipo di segno infamante variarono localmente, ma i due più diffusi furono la “rotella” e il cappello a punta detto alla latina “pileus cornutus”; la prima era una pezza di stoffa circolare a volte bicolore, a volte solamente gialla, che veniva cucita sul davanti dell'abito. Nella Serenissima la rotella fu una sorta di O della dimensione di un pane da quattro soldi, ma essendo piccola e facile da nascondere si passò al berretto dapprima giallo e dalla fine del Cinquecento in poi rosso.

Stemma di Judenburg, Austria
Il cappello a punta all'epoca del Concilio faceva già parte dell'abbigliamento maschile tradizionale ebraico portato comunemente dagli ortodossi; in origine era una variante del berretto frigio indossato in Persia dai sacerdoti di Mitra alcuni secoli prima di Cristo e diffusosi in seguito in Europa. Da noi era rappresentato nei manoscritti miniati come il Talmud ma anche nei testi sacri cristiani – lo si trova ad esempio sul capo di San Giuseppe - mentre in territorio tedesco compariva talvolta negli stemmi cittadini o nei blasoni, come a Judenburg, città austriaca il cui nome significa “Castello degli ebrei”, perché era un avamposto dei loro commerci. All'inizio il cappello a punta non era considerato un segno d'infamia, ma lo diventò quando fu introdotto l'obbligo di indossarlo. In parallelo si diffusero immagini antisemite con personaggi caratterizzati da un corpo sgraziato e un gran nasone, caratteristica che purtroppo è rimasta un topos nelle illustrazioni razziste fino ai tempi nostri.
Salterio di Bonne di Lussemburgo
con caricatura di ebreo
Tutto ciò – come ho detto all'inizio – fino alla Rivoluzione francese. Quando i nazisti obbligarono le popolazioni ebraiche dei territori occupati a cucire sugli abiti la Stella di Davide gialla a sei punte, non fecero altro che risuscitare un passato che ora si spera sia morto per sempre.


Fonti:
Rosita Levi Pisetzky, Storia del Costume in Italia, Istituto Editoriale Italiano
Michel Pastoureau, La stoffa del diavolo, Il melangolo
Bernhard Blumenkranz, Il Cappello a punta, Laterza
Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli, Il Mulino

venerdì 28 luglio 2017

Come eravamo: il costume da bagno femminile dai mutandoni della nonna al tanga

Nell'estate del 1824 la vedova di Carlo X di Borbone, la principessa Maria Carolina Ferdinanda Luisa di Berry, decise di prendere un bagno nelle non calde acque di Dieppe, nell'alta Normandia. Si tuffò in mare completamente vestita con un abito in panno, scarpette di vernice, cappello e guanti, inaugurando con sprezzo del pericolo la moda dei bagni di mare e facendo scandalizzare le corti di mezza Europa. Questa donna spregiudicata e moderna in realtà aveva copiato l'idea dall'Inghilterra, dove questa pratica era in uso dal XVIII secolo, prima del quale quella vastità acquea senza fine era vista come qualcosa di misterioso e pericoloso, un elemento popolato da terribili mostri marini, che costringeva la gente – aristocrazia compresa – a tuffarsi nelle onde più rassicuranti dei fiumi. Si indossavano per la bisogna camicioni di tela robusta e cappelli, dal momento che l'imperativo della moda imponeva alle signore una pelle lattea, sicuro stigma di nobiltà rispetto all'abbronzatura rozza delle contadine. Questi sacchi informi coprivano il corpo anche per motivi di pudore, gli stessi per cui uomini e donne si immergevano in spazi separati, scendendo in acqua direttamente da carretti di legno chiusi detti “macchine da bagno” che permettevano di effettuare il cambio degli abiti senza essere visti. Tutto questo armeggiare ci dice come a quell'epoca la visione – non solo del corpo intero, ma anche di parti come le caviglie – fosse considerata altamente sconveniente; non a caso un confidente della Serenissima Repubblica di Venezia nel 1762 segnala come meretrici le signore che si azzardavano a fare il bagno al Lido. Il graduale scoprirsi di ulteriori porzioni e l'intervento della censura fanno parte della storia del costume da bagno e della lotta per l'emancipazione verso la quasi nudità.

La prima rappresentazione di un due pezzi femminile risale all'epoca romana: un ambiente di servizio della grande Villa del Casale di Piazza Armerina in Sicilia, è pavimentato con un famoso mosaico che mostra dieci fanciulle in slip e reggiseno mentre compiono degli esercizi ginnici, eseguiti – non sappiamo se in palestra o per allietare dei commensali – ma comunque all'asciutto. La rigida morale cristiana mise una pietra tombale sull'esibizione del corpo in pubblico e sarebbe stata la diffusione delle vacanze al mare a partire dall'Ottocento che avrebbe riaperto il problema di come tuffarsi in acqua senza essere trascinati in fondo dal peso del tessuto inzuppato. Nel frattempo (grazie a Lavoisier) la chimica aveva scoperto l'esistenza dell'ossigeno, mentre i medici avevano cominciato a prescrivere l'aria pura e l'acqua di mare per la cura di parecchie malattie. Con la passione per la talassoterapia nacquero i primi stabilimenti balneari in cui le signore si recarono completamente vestite almeno fino al 1860, quando i giornali di moda iniziarono a pubblicare le prime e pudicissime illustrazioni di costumi da bagno: pantaloni larghi e lunghi fino ai garretti, una giacchina con maniche che copriva i fianchi (entrambi rigorosamente neri), una cuffia munita di visiera parasole, senza dimenticare le scarpe e naturalmente il busto, con cui entravano in acqua le sciagurate che volevano esibire a tutti i costi la vita di vespa
A scuotere quella castigata processione balneare pensò la nuotatrice e attrice australiana Annette Kellermann che in una calda domenica d'estate del 1908 si presentò in una spiaggia vicino a Boston con un costume nero di lana che le lasciava scoperte braccia e gambe, una provocazione inaudita che le costò l'arresto. In seguito, per niente intimidita, lanciò una sua linea di costumi che ebbe un notevole successo. Era l'inizio di una battaglia che le ragazze avrebbero combattuto contro la censura per una sessantina d'anni. Armati di metro regolamentare poliziotti e guardiani del buon costume cominciarono a percorrere in lungo e in largo le coste per controllare lunghezze, misurare scollature, multare o perfino mettere in galera le spudorate, ma era una lotta perduta in partenza: all'inizio degli anni Ruggenti con una maggiore coscienza dell'importanza della salute personale e dell'esercizio fisico tramite il nuoto, i costumi da bagno si accorciarono ulteriormente. Il business della moda aveva fatto il resto, introducendo modelli sbarazzini a colori vivaci. Le nuove linee furono anche influenzate dalla diffusione dell'abbronzatura, non si sa se lanciata dalla cantante Marthe Davelli o da Coco Chanel al ritorno da una vacanza a Biarritz. Negli anni Trenta cadde un'ulteriore frontiera del pudore: la stilista italiana Elsa Schiaparelli ridisegnò il tradizionale costume denudando la schiena e permettendo l'esposizione al sole di una pelle sana e colorata, ultima frontiera del glamour; intanto il classico binomio tunichetta-calzoncini cedeva il posto al costume intero.

Nell'Italia del Ventennio l'abbigliamento era controllato dal fascismo attraverso l'Ente nazionale della moda, fondato nel 1935 e voluto fortemente dal Duce che voleva costringere le donne ad abbandonare lo stile francese – allora copiato in tutto il mondo - in favore di un riconoscibile modo di vestire italiano e patriottico. Mussolini amava le donne robuste e credeva fermamente che la funzione femminile principale fosse quella della maternità. Convinto che “l'eleganza è nettamente sfavorevole alla fecondità”, il regime dettava le direttive attraverso le riviste di moda, suggerendo perfino che la modella perfetta doveva essere alta meno di un metro e sessanta e pesare 55/60 chili. Sui giornali di moda e sui manifesti turistici che pubblicizzavano le vacanze in riviera comparvero illustrazioni di ragazze in costume dai seni e dai fianchi generosi e dalla vita larga, futura promessa di prole abbondante; intanto il MinCulPop, Ministero della Cultura Popolare, aveva emanato una disposizione che vietava ai giornali la pubblicazione di fotografie di donne nude o in abiti molto succinti che secondo Galeazzo Ciano erano antidemografiche.
Negli Stati Uniti si usavano già con disinvoltura costumi da bagno che sarebbero arrivati in Europa solo dopo la guerra: lucidi e colorati, a un solo pezzo che arrivava non oltre le natiche, o due pezzi (reggiseno e mutandina) che audacemente lasciava libero lo stomaco. La novità erano le fibre elastiche fascianti che venivano a sostituire la lana che si appesantiva durante il bagno e a volte mostrava imbarazzanti nudità. 
Nel 1946, un anno dopo la fine del conflitto, lo stilista francese Louis Réard presentò – basandosi su un modello più castigato del suo collega Jacques Heim – un costume talmente ridotto da esibire anche l'ombelico e l'inguine, e che fu presentato al pubblico addosso a una spogliarellista perché non si trovarono indossatrici tanto disinibite da portarlo con disinvoltura. L'impatto fu così forte che il microscopico indumento fu ribattezzato Bikini, dal nome di un atollo delle isole Marshall dove l'America eseguiva esperimenti nucleari che tra l'altro ebbero tragiche conseguenze su una parte abitanti. Il sonno della ragione genera mostri: l'abbinamento fra il sex appeal femminile e il terribile ordigno sarebbe stato vincente anche negli anni Cinquanta quando sempre in America una bella ragazza bionda, Lee Merlin, fu eletta Miss Atomic bomb indossando appunto un costume da bagno a forma di fungo.
All'estero il nuovo indumento fu immediatamente accolto con favore da dive e donne famose come la principessa Margaret, sorella della regina d'Inghilterra e soprattutto da Brigitte Bardot, che nel 1953 visitò la portaerei americana Enterprise vestita con un bikini che sembrava un'ombra (con sommo gaudio dei 2000 marines), mentre da noi incorse nei rigori della censura democristiana alleata a quella ecclesiastica. Nel 1957 il manifesto del film di Dino Risi, “Poveri ma belli” che mostrava una Marisa Allasio ammiccante in due pezzi, scandalizzò Pio XII al punto da causarne il sequestro il giorno dopo l'uscita; ancor più Illuminanti in proposito furono le circolari che il ministro dell'interno Mario Scelba trasmise ai questori e al Comando Generale dell'arma dei Carabinieri in cui vengono indicate perfino le misure per i costumi da bagno di ambo i sessi “onde evitare un abbigliamento eccessivamente succinto quindi lesivo delle regole del pudore e della decenza” (6 agosto 1963). Il documento fu accolto tra lo sghignazzo generale, anche perché conteneva in allegato un grazioso modellino in scala 1/5 di un paio di slip maschili regolamentari; nelle spiagge più spudorate della penisola, Rimini e Viareggio, ancora una volta i carabinieri dovettero constatare le infrazioni multando o allontanando i trasgressori. Più forte della censura fu comunque l'ostinazione dei bagnanti e, se pur con una certa difficoltà, il bikini finì per affermarsi e per diventare sempre più ridotto.
Nel 1964 lo stilista austriaco Rudi Gernreich lanciò il monokini, un topless in maglia che si concludeva a metà del busto ed era sostenuto da due bretelle incrociate, e che dichiarava le idee libertarie del sarto circa l'esibizione del corpo umano che lui non considerava vergognosa. Si era in piena “rivoluzione sessuale”, ma il modello non riuscì ad avere successo commerciale, pur aprendo la strada all'esposizione del nudo: all'inizio degli anni Settanta una modella brasiliana, Rose de Primo, si fece notare sulla spiaggia di Ipanema indossando un Tanga, il famoso triangolino di stoffa che copre solamente il pube lasciando liberi i glutei. Non era una novità assoluta perché che il copri-sesso era un indumento di origine tribale diffuso in Amazzonia, ma su un lido connotato dalla cultura occidentale scatenò un parapiglia. L'esibizione pressoché totale del corpo ha portato inevitabilmente al culto dell'apparenza: obbligatorio avere un look perfetto e costruito attraverso diete, sport, ginnastica, jogging, danza, body building, dove i nemici da combattere sono pancia e cellulite, problemi che colpiscono (e avviliscono) la maggior parte delle donne adulte. Oggi si va in spiaggia con qualsiasi cosa. Sembra che le ultime novità della moda siano il “nipple bikini” che ha il reggiseno color rosa carne con i capezzoli stampati sopra, e il “naked bikini” che si scioglie completamente una volta a bagno nell'acqua, anche se a questo punto sorge una domanda: non sarebbe meglio frequentare una spiaggia per nudisti?

Fonti:
Doretta Davanzo Poli, Costumi da bagno, Zanfi editori
Natalia Aspesi, Il lusso e l'autarchia, Rizzoli